Mapello: «Accogliere è solo il punto di partenza. Bisogna mettersi in gioco, ci vuole coraggio»

Lo scorso 16 ottobre durante l’incontro tenutosi alla Casa del Giovane e promosso da Caritas Diocesana Bergamasca dal titolo “Comunità cristiane e accoglienza dei richiedenti asilo”, don Alessandro Nava, parroco di Mapello, era intervenuto in merito all’esperienza di accoglienza diffusa che la sua comunità sta vivendo. Per fortuna, mi permetto di dire, la realtà della migrazione e dell’accoglienza dei profughi e dei richiedenti asilo non è qualcosa di cui si può smettere di parlare perché continuamente presente, ogni giorno di più, nelle comunità bergamasche. Nel verbale dell’ultimo consiglio pastorale delle parrocchie di Mapello, Valtrighe e Ambivere, si evince chiaramente la forma che sta prendendo questa realtà. Vi si legge che l’iniziativa è partita dai sacerdoti. In merito a questo punto don Alessandro afferma che l’idea è partita dai sacerdoti, interrogati dalle vicende di attualità che affollano giornali e programmi televisivi. «Ci siamo chiesti in che modo noi preti potessimo porci di fronte a quanto succede nel mondo, in che modo potessimo orientare le comunità rispetto al tema dell’accoglienza. Non c’è stato un evento scatenante che ci ha scossi, ma abbiamo voluto concretizzare, attraverso la conoscenza diretta, dare un volto e un nome a quell’ “altro” di cui parliamo nei percorsi dei ragazzi; siamo partiti da una giornata in-formativa attraverso i servizi che accolgono “l’altro” in città, che ha coinvolto ragazzi e genitori lo scorso 17 gennaio in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, fino all’accoglienza di cinque ragazzi lo scorso luglio».
È stato un percorso graduale e graduato, reso possibile anche dalla buona preparazione sul tema della comunità, che ha disposto di strumenti e momenti attraverso i quali formarsi e interrogarsi. Prima di accogliere i cinque ragazzi, quattro gambiani e uno senegalese, che attualmente vivono in un appartamento a Mapello, messo a disposizione da un privato e della cui gestione si occupa la Caritas Diocesana, è stato fatto un percorso di formazione, che ha coinvolto i sacerdoti, circa dieci volontari protagonisti del progetto in prima persona, alcune associazioni locali, quali “Giardino di Parole”, una scuola di italiano per donne straniere, Geam (il gruppo antincendio boschivo), il Pozzo, cooperativa di inserimento al lavoro per disabili, coordinati e seguiti dagli operatori di Caritas Bergamasca e della Cooperativa Ruah.
«La comunicazione dell’arrivo dei ragazzi è stata fatta a cose fatte – continua don Alessandro – perché si è voluto evitare di alimentare il fuoco delle tensioni presenti nei comuni circostanti. Abbiamo voluto che si creassero condizioni ottimali, che ci sono state e persistono tuttora, nonostante all’inizio la comunità li abbia guardati in maniera distante, spiandoli, in un certo senso, dalle fessure delle finestre e non risparmiando qualche commento ruvido, ma, per fortuna, come comunità abbiamo una buona preparazione in termini di conoscenza dello straniero».
Don Alessandro non nega che ci siano state difficoltà, legate, però, non ad una mancata accoglienza, ma ad un’impreparazione dovuta al fatto che tanto per la comunità quanto per i ragazzi accolti sia la prima volta in cui si sperimentano in una convivenza di questo genere. «La difficoltà non è stata accogliere, così come accogliere non è la meta, ma il punto di partenza, perché ora che abitano con noi bisogna che li si consideri non come cinque ragazzi stranieri come se fossero una cosa sola, ora sono ognuno una persona, il che significa che ciascuno deve essere seguito, formato e accolto per quelle che sono le sue richieste e per quella che è la sua unicità». Senza dubbio Mapello e la prima esperienza di accoglienza diffusa sul territorio sono un modello per tutto il territorio bergamasco, ma don Alessandro non se la sente di sperperare consigli e suggerimenti, ma ci tiene a ribadire la sua disponibilità nell’eventuale supporto a realtà parrocchiali che potranno e vorranno valutare la possibilità di accogliere, sottolineando, però, come accoglienza non significhi cercare di trovare subito un appartamento libero dove possano abitare, quanto, invece, immaginare l’accoglienza di chi è diverso, straniero. «Il primo passo è mettersi in gioco e cogliere l’opportunità di un’esperienza che è arricchente. Ci vuole coraggio, senza dubbio, ma bisogna sfatare i falsi miti figli della disinformazione, bisogna affrontare quanti, pochi in realtà, sfidano la democrazia facendo leva sulla suscettibilità di qualche cristiano disinformato. La realtà dimostra il contrario, si vedono risposte di generosità e favore all’accoglienza di quanti non lasciano che disinformazione e violenza verbale diventino armi in un regime di paura. L’accoglienza diffusa è la testimonianza del Vangelo da parte di ogni cristiano. Non ci sono più problemi nel professare l’aiuto ai più deboli, che siano anziani, malati o giovani perché è una testimonianza diffusa, ma ora la Chiesa, il Papa e il Vescovo chiedono di lasciarsi provocare da questa povertà per diventare in questo caso ancora una volta testimoni di carità».
Rispetto al futuro don Alessandro non è fiducioso, senza dubbio soddisfatto del lavoro svolto fino a questo punto, ma teme la miopia della politica italiana ed europea, che sembrano non fare nulla perché questi ragazzi possano ottenere dei riconoscimenti come richiedenti asilo o documenti che evitino che in futuro, inevitabilmente, si trovino nella condizione di clandestini, costretti ad affollare, come già accade, le strutture fornite dalla Caritas e dal Patronato. «Serve che una voce forte si levi e faccia interrogare sul futuro di questi ragazzi, perché i problemi saranno per loro, ma noi non possiamo rimanere indifferenti». Oltre a don Alessandro mi incuriosisce poter ascoltare qualcuno che stia vivendo da protagonista l’esperienza. Sonia, operatrice della Caritas Parrocchiale di Mapello, lei che, ridendo, conferma l’appellativo che le attribuisco. «In effetti sì, posso dire di essere stata ed essere tuttora protagonista di questo progetto perché fin da subito ho partecipato all’equipe che ha condiviso la scelta dei sacerdoti di accogliere questi ragazzi. Ad oggi posso dire di essere il tramite tra la comunità e loro cinque e mi occupo di quello che può servire, dalle istruzioni per far funzionare la lavatrice al rivolgermi al medico». Anche a lei chiedo gioie e dolori di questo tentativo di convivenza. «La difficoltà più grande sta nel riconoscere che loro sono cinque, ma in realtà sono ognuno una persona diversa, unica e portatrice di bisogni specifici, serve dare attenzione alla diversità che ognuno ha in sé. La gioia più grande – ride – oltre a quella di essere quasi una mamma per loro, è sicuramente la grande occasione che sto vivendo di instaurare un rapporto di conoscenza di vite e storie e confidenza e vicinanza. Sarà difficile separarsi da loro che sono e stanno diventando sempre più parte di noi. Un consiglio per altre parrocchie non ce l’ho, soltanto posso dire che chi semina e dona, prima o poi raccoglie e riceve e io sto ricevendo tanto da questo meraviglioso incontro». I protagonisti di questa storia, però, sono loro. Ho potuto parlare solo con tre di loro: Mussa, 22 anni, gambiano, in Italia dal 17 settembre 2014; Kemokho, 22 anni, senegalese, nel nostro Paese dal 24 novembre 2014 e Ousman, 20 anni, gambiano, arrivato il 28 luglio 2014 (interessante il fatto che tutti ricordino con precisione il giorno esatto di quando sono sbarcati nel nostro Paese), tutti e tre ospitati a Botta di Sedrina per circa otto mesi prima di essere accolti a Mapello. Chiedo a tutti di raccontarmi il passaggio dall’alloggio a Botta alla casa di Mapello: tutti e tre concordano nell’affermare che la sistemazione attuale è nettamente migliore, non per la casa in sé, ma perché si sentono accolti, perché da quando sono a Mapello, da quando vanno a scuola, frequentano il corso di informatica e sono attivi come volontari della cooperativa Il Pozzo hanno potuto finalmente incontrare qualcuno, parlare e farsi conoscere. Il loro italiano è ancora piuttosto stentato, ma usano solo parole belle per descrivere le persone che stanno conoscendo. Sono giovani e hanno sogni per il futuro: Mussa vorrebbe finire la terza media e diventare elettricista, Kemokho vorrebbe diventare meccanico e Ousman per ora si accontenterebbe di imparare bene l’italiano per potersi integrare di più. A tutti chiedo cosa sperano per il loro futuro. «Vorrei la sicurezza che i documenti e il lavoro ti danno» dice Mussa; «Mi sento come paralizzato, senza documenti e permesso di soggiorno ho paura che finirò per strada, diventando clandestino; senza documenti e un lavoro il futuro è difficile» risponde Kemokho, «Il futuro non lo vedo per ora, finché non avrò lavoro e documenti non c’è niente da fare» chiude Ousman. Per me è difficile, impossibile pensare di non avere futuro, perché per qualcuno con l’unica colpa di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato non dovrebbe essere lo stesso?