La Chiesa, il mondo contemporaneo e le strategie per “accendere la luce”

In una sua poesia giovanile dal tono abbastanza kitsch, Giosuè Carducci prevedeva che «Satana» – emblema del pensiero critico – avrebbe presto avuto la meglio sul «Geova de’ sacerdoti». A distanza di un secolo e mezzo, non si direbbe che la profezia si sia realizzata: da un lato, il progresso scientifico e tecnologico non ha impedito l’apparizione di nuove forme di un sacro «esplosivo», difficilmente governabile, eccedente gli schemi delle istituzioni religiose tradizionali; dall’altro, si va diffondendo una visione del mondo che assomiglia molto a una non-visione: si rinuncia a qualsiasi tentativo di interrogare l’esperienza o di rintracciare un barlume di senso nelle biografie personali, dando per scontato che la realtà si riduca a una successione di «simulacri». La questione di quale ruolo sia chiamato ad assumere il cristianesimo in questo paesaggio dai tratti incerti costituisce il motivo conduttore de L’arte di accendere la luce. Ripensare la Chiesa pensando al mondo (Vita e Pensiero, pp. 142, euro 12): il prossimo 14 gennaio alle 20 e 45, nel Cineteatro Qoelet di Redona (in via Leone XIII, 22), il testo sarà presentato dall’autore – don Giuliano Zanchi, segretario generale della Fondazione Bernareggi – in dialogo con il filosofo Silvano Petrosino e con Aurelio Mottola, direttore della casa editrice Vita e Pensiero.

Questa raccolta di scritti di don Zanchi è nata in gran parte come una serie di contributi al gruppo «Il Concilio oggi», che da diversi anni, proprio presso la parrocchia di Redona, svolge un’attività di studio e riflessione sul magistero del Vaticano II; significativamente, il libro è dedicato a don Sergio Colombo (1942-2013), che a suo tempo aveva promosso e poi a lungo coordinato questa attività. Nelle pagine iniziali del volume, si previene un possibile equivoco circa il modo in cui la Chiesa sarebbe oggi chiamata ad «accendere una luce»; certamente non si tratta – secondo un’idea pure ricorrente in molte omelie e pamphlet religiosi – di richiamare a sé un mondo riottoso, portato a compiacersi della proprio cecità dopo aver imboccato la strada sbagliata. In effetti, nell’atmosfera sospesa della nostra epoca, i credenti sono spesso tentati di vivere «rimpiangendo i loro felici mezzogiorni – scrive don Giuliano Zanchi -. Si guardano indietro nella speranza di rivedere antichi chiarori, trovando ogni volta solo la tenebra di qualcosa che non esiste più. Allora ogni tanto ricordano di avere tra le mani l’esile bagliore della luce evangelica. Tenendola con timore fra le mani, vedono aprirsi varchi sufficienti a fare un pezzo di strada. Quando succede, attorno a loro si raccolgono altri sperduti viandanti, grati di potersi aggregare al viaggio. È l’arte di accendere la luce. Non si tratta dei lumi dell’onniscienza. Né dei fulgori della presunzione ideologica. Si tratta della tremula fiamma sufficiente a incoraggiare il cammino».

Nemmeno si può immaginare che la questione della testimonianza ecclesiale nel mondo contemporaneo vada affrontata con strategie di marketing spirituale, come se una «nuova evangelizzazione» potesse consistere nel rifare daccapo – magari in maniera più pressante e capillare – ciò che si era già fatto in passato. Soffermandosi su alcuni figure e temi emblematici di un disagio che oggi attraversa la Chiesa (il ministero del prete, le responsabilità dei laici, il singolare squilibrio tra il ruolo essenziale delle donne nella vita delle comunità cristiane e lo stentato riconoscimento ufficiale nei loro riguardi) don Zanchi assume come principio orientativo che il Vangelo sia «una cosa per grandi». Da questo punto, un assetto istituzionale e dottrinale pure glorioso – sostanzialmente, quello assunto dalla Chiesa cattolica a metà del Cinquecento, con il Concilio di Trento – mostra oggi dei limiti; su un vecchio modello di catechesi e sulla netta subordinazione dei laici ai ministri ordinati non può che edificarsi, salvo felici eccezioni, «un cristianesimo magico, ingenuo, soprannaturalistico, che non regge alle prime obiezioni di una cultura minimamente critica o alle normali pressioni della vita reale, se non rifugiandosi in una trincea di devotismo interiore, staccato dai problemi della storia e dalle questioni della vita. Oppure planando nel limbo di un agnosticismo routinario, in cui la questione religiosa rimane in sospensione perpetua, intriso però di nostalgia per quell’infanzia in cui si andava all’oratorio e si faceva i chierichetti. Ma in qualche caso si manifesta anche una distanza dichiarata ed esplicita nei confronti di una cultura religiosa giudicata, dallo sguardo ormai adulto, qualcosa di intrinsecamente infantile e acritico, non degno dunque del credito che si può richiedere a un essere umano adulto e ragionevole».

Per ridare dignità culturale all’esperienza di fede, occorrerebbe però rivalutare un tema pure ben presente nella tradizione cristiana, l’assioma per cui la rivelazione di Dio è, al contempo, una rivelazione dell’uomo a se stesso: una «teologia pastorale», allora, non corrisponderebbe a un settore a sé stante, accanto alla teologia dogmatica e biblica, ma la chiave di volta, o per meglio dire lo stile architettonico dell’intero edificio teologico ed ecclesiale. Del resto, la logica interna dei due Testamenti sta a indicare che la verità divina non giunge agli uomini nella forma atemporale di enunciati protocollari, garantiti una volta per tutte: «Perché il Vangelo possa continuamente parlare alla storia – aggiunge don Giuliano Zanchi -, occorre qualcuno che ne prolunghi l’annuncio mediante il proprio indefesso e intelligente ascolto. Provo a dirlo ancora più chiaramente. Non esiste un insieme di concetti messi a punto da Gesù, che il discepolo debba mandare a memoria, di cui debba solo in un secondo momento riportare il contenuto, con intransigente diligenza, a un’indistinta platea di passivi destinatari finali. Non funziona così. Esiste il lavoro di meravigliati testimoni che tentano di chiarire il senso delle cose vissute, proprio attraverso lo sforzo con il quale cercano di raccontarlo anche a se stessi. Il Vangelo è l’ingresso in un processo, non la notifica di un contenuto».