Da Revenant a Tarantino: il cinema torna alla conquista del West

Chi l’avrebbe mai detto che un genere dato ormai per morto, come il western, resuscitasse oggi con tanta veemenza? In attesa dei “terribili otto” del nuovo film di Tarantino, infatti, un’altra pellicola americana utilizza il filone portante del cinema classico per raccontare una storia di sopravvivenza e vendetta. “Revenant”, diretto in realtà dal messicano Alejandro Inarritu, anche se americanissimo per attori (Leonardo Di Caprio ne è lo splendido protagonista) e struttura narrativa, appartiene infatti a pieno titolo al western e concorre per le statuette più importanti ai prossimi oscar (miglior film, regia e attore).
Dunque possiamo parlare di una rinascita per questo glorioso genere del passato? La risposta è: in parte. Perché se è vero che si torna a raccontare storie ambientate alla fine dell’Ottocento, all’epoca della conquista degli immensi spazi dell’ovest, subito dopo la guerra civile, quando dunque nasce la nazione americana, è altrettanto vero che si tende a stravolgere il senso profondo ed idealistico che aveva sorretto i film del passato di questo tipo, su tutti quelli di John Ford. Oggi, infatti, il genere viene rivisitato ed ibridato con altri generi, gli si cambia prospettiva etica, in accordo con le pratiche estetiche e morali della postmodernità. Se dunque nel passato il western era il luogo dell’idealismo americano, del trionfo degli ideali di democraticità e onesta, oggi le storie raccontate trasudano violenza e nichilismo (Tarantino ne è l’esempio più eclatante) e oggi il western è spesso il genere della sopraffazione della cosiddetta civiltà bianca che stermina ogni minoranza, non l’esaltazione di una società nuova e pura che nasce ma la contestazione di un paese che si è formato sul sangue e sulla prevaricazione.
Revenant è intriso di queste idee. Un ruolo fondamentale nella sua storia lo hanno gli indiani, di cui si racconta il punto di vista (ma di cui non si risparmiano le crudeltà). Il protagonista è diviso fra cultura yankee (è un bianco) e cultura indiana (ha sposato una pellerossa e ha avuto da lei un figlio) e quando raggiungerà l’equilibrio tra queste due anime sarà finalmente pacificato. Un messaggio, dunque, come d’altronde avevano già fatto i western degli anni sessanta, a rivedere la storia passata e a cambiargli prospettiva. Basato su una storia vera, il film di Inarritu racconta l’epopea per la sopravvivenza di un uomo a cui hanno ucciso il figlio e che è stato abbandonato, mezzo morto, nella natura selvaggia. Solo la voglia di vendetta gli darà la forza per sopravvivere. La pellicola ci fa “provare” per quasi tre ore le terribili sofferenze del suo protagonista: viviamo il freddo, il dolore, la disperazione che Di Caprio, in una interpretazione fisicamente estrema (il film è stato girato in luoghi reali con condizioni climatiche impervie), rende assolutamente viva e reale. La macchina da presa è sempre ad altezza del suo sguardo, uno sguardo per lo più dal basso (perché il protagonista è ferito e deve strisciare per muoversi) in cui veniamo “schiacciati” dall’immensità di una natura “matrigna” e dalla violenza degli esseri umani che non mostrano alcuna pietà. Regna dunque un grave pessimismo e un forte nichilismo ma in realtà Inarritu nel finale offre una salvezza morale per il suo protagonista e per noi spettatori, riavvicinandosi così all’afflato etico del vero western del passato.
Quando, infatti, Di Caprio arriva finalmente a scontrarsi con l’uomo che gli ha ucciso il figlio e ha quasi ucciso anche lui e potrebbe finalmente vendicarsi, decide di lasciar perdere perché, come dice lui stesso, “non sta a me giudicare e toglierti o meno la vita”. Revenant è perciò un’odissea individuale dall’afflato umanistico, la parabola antica e moderna insieme di un uomo privato della sua umanità dalla crudeltà altrui che, però, la recupera nella sofferenza e nel contatto con la natura.