Chandra Livia Candiani: «Oggi abusiamo delle parole. Il compito della poesia è mantenerle in vita»

“Niente, è che a me piacciono da sempre le cose mute,/quando l’io zittisce/e si alza il volume della voce/non solo degli uccelli/ma anche del silenzio dell’armadio/e del tavolo/della lampada e del letto./Allora niente,/vivo in una nuvola di luce/dove tutto rabbrividisce/e fa parola, allora bevo/all’orlo del mondo/alla sua fontana”. La poesia che nasce dal silenzio, quando il poeta ha la forza di “mettersi da parte e ricevere le parole”. È questo il percorso di Chandra Livia Candiani, poetessa milanese dalla voce delicata, dallo stile essenziale, asciutto: le sue parole disegnano traiettorie profonde, voli d’emozione. Questa sera (sabato 5 marzo) alle 18 è possibile incontrarla all’auditorium Gritti di Ranica nell’ultimo appuntamento del Festival Presente Prossimo. Dialoga con lei Giovanna Zoboli, scrittrice, poetessa, fondatrice della casa editrice TopiPittori. Si parla di poesia a partire dall’ultima raccolta dell’autrice “La bambina pugile” (Einaudi). Anticipiamo l’incontro con un’intervista.
Come si è avvicinata alla poesia?
«Ho iniziato a scrivere a dieci anni. Non è stata una decisione consapevole ma un dono che è arrivato quando ero piccola e mi ha sempre accompagnato durante la vita».
Non è facile scrivere poesie oggi, in un mondo che annega nelle parole, scritte, ascoltate, riversate in rete. Perché continuare a farlo?
«Penso che la funzione della poesia sia quella di mantenere in vita la parola e preservarla. Mario Luzi diceva che è compito della poesia far risorgere la parola e credo che attualmente sia abbastanza difficile essere all’altezza. Le parole, è vero sono molto consumate e a volte mi sembra che siano perfino in via d’estinzione, vista la scarsa correttezza delle persone nel parlare, nell’incontrarsi, nel dire le cose come stanno. Tutta la mia vita si è orientata nella ricerca sulla parola, e ritengo che un ruolo importante ce l’abbia anche il silenzio. Più facciamo silenzio dentro di noi e più impariamo a comunicare. Più chiacchieriamo e più ci allontaniamo. Non a caso ci sono gli a capo: la poesia mette insieme il bisogno di parola e di silenzio, con la sensazione che il poeta dà che si può dire solo un po’ e il resto va intuito. Senza silenzio io non posso vivere e quello che mi turba dopo un po’ è la quantità di parole, mi stanca moltissimo.».
Che cosa rappresenta per lei la parola?
«La parola è l’ammissione che l’altro c’è, che io voglio raggiungerlo, che c’è una relazione. Penso anche che la parola abiti in noi e non solo noi nella parola. La parola, dicevamo, oggi è consumata, trascurata, abusata: c’è un narcisismo dilagante, non conosco molto i social network ma mi sembra che abbiano educato a evitare il dialogo e a inventarsi l’altro come uno specchio, non come un reale contatto. Allo stesso tempo vedo molti giovani che utilizzano internet come rete di connessione, come ricerca di legame. Per questo non mi sento di dare giudizi troppo perentori. Certamente c’è qualcosa che sta accadendo agli esseri umani, quindi anche alla parola, una mancanza d’onestà. Io sono diretta e netta e quindi divento scomoda e un po’ emarginata. In realtà penso che una funzione importante della parola sia dire il vero. Bisogna offrire e chiedere la verità. Così la parola diventa il ponte tra due persone disarmate, tra due nudità. La poesia è una forma di autenticità ma non basta, c’è anche un dono, imponderabile e perfino un po’ ingiusto perché arriva così, non si sa perché. Ma non serve senza lo studio e la devozione. Un poeta è anche un contadino delle parole, deve lavorare per far sì che nei suoi versi arrivino il più possibile fedeli a quell’ascolto profondo che chiamiamo ispirazione. Una parola un po’ caduta in disuso e che invece io considero fondamento di qualunque poesia davvero riuscita. Un poeta deve saper mettersi da parte e ricevere le parole».
Lei quali poeti legge? Chi sono i suoi maestri?
«Prima di tutto Rilke e poi i grandi poeti russi Pasternak, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Osip Mandelstam. Grandi artisti che hanno sentito la forza della parola che salva e apre i mondi. Rilke diceva che il primo compito della poesia è rendere invisibile il visibile. Sembra un concetto quasi capovolto rispetto al nostro pensiero. Invece è proprio così: il linguaggio poetico può toglierci dall’abitudine dello sguardo, seminare ovunque un senso di miracolo e di meraviglia. I miei maestri sono quelli che hanno rischiato la vita e a volte l’hanno persa per la poesia. Ho dovuto cercarli per conto mio perché la scuola mi ha tolto il gusto dei versi, il mistero, il gusto sonoro».
La poesia continua ad avere, secondo lei, un ruolo civile e politico?
«Penso che la poesia potrebbe avere oggi forza più che in qualunque altra epoca proprio per il dilagante cattivo uso che si fa della parola. Ma bisogna poi che i poeti si assumano questa responsabilità: perché questo avvenga non bisogna allontanarsi dalla lingua di tutti ma nemmeno cadere negli stereotipi. Un lavoro difficilissimo e spirituale, non ci si può arrivare solo leggendo libri».
In libreria è difficile trovare titoli di poesia. Si legge poco. Secondo lei come mai?
«In altri Paesi d’Europa la situazione è diversa, in Italia in questo momento c’è un grande disprezzo della cultura, basta vedere come trattiamo le nostre opere d’arte, ci sono luoghi bellissimi lasciati a se stessi. Credo che in generale il bombardamento di informazioni anziché di conoscenza al quale le persone sono continuamente sottoposte non stimoli la fame di cose vere di cui invece avremmo bisogno. Qualcuno sostiene che gli italiani leggano poco perché non sanno stare da soli. Può darsi. Leggendo una poesia entriamo in una solitudine profonda, ma risonante. Siamo soli ma sentiamo che qualcuno sa dire quello che anche noi proviamo. Credo che l’importante sia incominciare da piccoli, possibilmente a scuola: e leggere molte poesie. Poesie vere».