La scuola italiana e i suoi eterni problemi. Il concorso del Ministero non servirà per scegliere insegnanti di qualità

Il Governo ha varato il Decreto per indire il concorso di assunzione di circa 63.712 insegnanti per una platea di circa 200 mila aspiranti. Sono stati pubblicati, a fine febbraio, i bandi; la carovana burocratica si sta mettendo in marcia. Poiché la qualità di una scuola coincide con quella del suo personale dirigente e docente, il concorso permetterà di scegliere docenti di qualità? La risposta è no.

CIÒ CHE SI CHIEDE A UN BUON INSEGNANTE

Il Ministro ci ha riproposto il “solito concorso”, non avendo avuto la volontà e la forza di dire no ai sindacati, contrari ad affidare la chiamata diretta dei docenti alle singole scuole, sulla base delle loro esigenze educative, con un meccanismo che accerti il possesso delle competenze professionali dell’aspirante docente. La positiva riduzione delle Classi di concorso da 168 a 113, se allarga le opzioni di scelta degli aspiranti docenti, non garantisce affatto la qualità del personale docente. Le ragioni sono presto dette. La tavola delle competenze professionali del docente ne prevede cinque: conoscenza della disciplina, capacità di mediazione didattica, capacità di relazione con i ragazzi, capacità di relazione con i colleghi, conoscenza dell’ambiente civile e istituzionale del territorio. La consistenza e la concatenazione logica di questa tavola sono comprensibili da chiunque. È evidente che conoscere la matematica non significa essere capace di insegnarla ai ragazzi. Ma essere capace di trasmettere un sapere non basta. Occorre entrare in relazione simpatetica con i ragazzi. Non basta ancora! Bisogna collaborare con i colleghi per costruire la comunità educante, che è l’ambiente educativo essenziale per i ragazzi; senza il quale, i ragazzi si sentono soli e gli insegnanti né praticano l’interdisciplinarietà né compensano deficit individuali. E poiché la scuola è radicata in un territorio, è da considerare una necessaria competenza-chiave conoscere le famiglie, le storie, il contesto socio-economico e culturale, le istituzioni della comunità civile e politica. Insomma: non basta istruire bene per educare bene.

IL CONCORSO, DELLE CINQUE COMPETENZE NE  VERIFICA SOLTANTO UNA

Solo essendo degli educatori si riesce ad essere anche dei buoni professori. I meccanismi classici del concorso, che il Decreto ripropone, consentono di accertare il possesso della prima competenza-chiave – quella del sapere disciplinare – attraverso le prove orali e scritte e qualcosa della seconda –la capacità didattica – attraverso trentacinque minuti di lezione simulata. E le altre? Nulla. Al di là delle retoriche usuali, il profilo di insegnante che l’ideologia ministeriale prevede è quello di uno che trasmette conoscenze, seduto in cattedra. La scuola è tutta fondata sulla dimensione cognitiva, disincarnata dalla persona. Il docente è destinato ad un’aula, dove sta seduto un uditorio composto e silenzioso: ci troviamo in un “auditorium”. Ma poichè il Paese, le famiglie, la società civile, i ragazzi chiedono alla scuola molto di più, l’effetto è l’allontanamento veloce del pianeta dell’apprendimento da quello dell’insegnamento. Benché il Documento della “Buona scuola” dell’autunno 2014 e la Legge 107 del luglio 2015 lasciassero intravedere un’ipotesi diversa di assunzione dei docenti – quella diretta da  parte delle scuole – alla fine ha prevalso la forza ottusa dei sindacati della scuola e il probabile timore, da parte del Governo, di aprire un nuovo fronte politico di massa. C’è poco da scherzare con otto milioni di ragazzi, con un milione di insegnanti e con qualche milione di famiglie.

FRUSTRAZIONE PER TUTTI

Si conferma che, per ora, la Legge 107/2015 è solo politica dell’impiego del personale. I docenti sono trattati e selezionati come il personale amministrativo che compila e trasferisce scartoffie o files. Eppure i candidati, provenendo magari da anni di precariato nella scuola, potrebbero essere in possesso di tutte le competenze professionali necessarie. Ma nessuno le riconosce loro. Frustrante per i ragazzi, frustrante per i docenti. Un altro sistema di reclutamento? Andare a prendere i candidati sul campo dove acquisiscono le competenze. Le scuole sono come botteghe artigiane, dove i candidati possono fare praticantato sia prima che dopo la laurea, sotto la guida di un tutor. Poiché le scuole sono in grado di formare insegnanti, sono anche in grado di selezionare i migliori. Perché i sindacati e loro forze politiche di riferimento si oppongono? Grumi vetero-ideologici e interessi corporativi si sono condensati in un blocco storico conservatore. Chi ha compilato il bando ne è stato così fortemente condizionato da restare cieco di fronte a ciò che sta accadendo sul pianeta Terra degli apprendimenti.  Difende un sistema male-educativo e di istruzione che sta andando al collasso, nel quale l’uditorio delle aule è sempre meno composto e sempre meno silenzioso.

IL DELITTO DI FAR PERDERE IL DESIDERIO DI SAPERE

Far perdere il desiderio di sapere, quello che Aristotele nel Primo libro della Metafisica attribuisce a tutti gli uomini, è un delitto che le giovani generazioni da tempo denunciano, a loro modo: con il disinteresse, con la noia, con la fuga, con la depressione, con la dispersione, con il disagio. Se il processo di acquisizione del sapere di civiltà cessa di essere l’avventura esistenziale della vita per diventare, nel caso migliore, solo un campo di misura delle prestazioni, allora la rottura tra le generazioni adulte e quelle giovani è già consumata. Tutti gli insegnanti sono educatori incapaci? Certo che no. Hanno appreso sulla propria pelle e su quella dei ragazzi, che lungo gli anni di precariato sono passati loro davanti.  Capaci, nonostante i concorsi del Ministero.