Preti e politici hanno voluto salvare il mondo. Adesso scappano in convento. Ma il convento non è sulla luna

Foto: don Thomas Frings, il prete tedesco al centro di molte discussioni

La scelta di don Thomas Frings  – pronipote di quel Card. Joseph Frings, che fu protagonista del rinnovamento conciliare e che portò con sé a Roma come consulente un giovane teologo, che poi sarebbe diventato Benedetto XVI – di andare in monastero, dopo 30 anni di servizio parrocchiale, interpella non solo i sacerdoti, ma chiunque sia appassionatamente impegnato con il mondo, in qualche ramo dell’attività umana.

SI VUOLE MUOVERE LE MONTAGNE. NON SI MUOVE NEANCHE UNA FOGLIA

Alzi la mano chi non ha provato, almeno una volta, la fascinosa tentazione di congedarsi, di dedicarsi alla propria vita interiore, alla ricerca della verità su di sé e sul mondo e del proprio destino! Non è forse vero che solo “in interiore homine habitat veritas”? Quando vivi per anni una fede religiosa o ideologica e molto terrestre che si sente capace di smuovere le montagne e poi sei costretto a constatare che non smuovi neppure una foglia e che il mondo, al quale tu prometti – ancorchè non richiesto – salvezza, se ne va per suo conto, allora cominci a chiederti dove stai andando tu. E’ capitato a tutta le generazione di credenti e di sacerdoti uscita dal Concilio Vaticano II per andare verso il mondo. Ma anche alle generazioni politiche del dopoguerra e a quelle del ’68. Se la Chiesa, se il partito, se l’impegno sociale appaiono inefficaci e irrilevanti, se “perdono significato per la gente “, come osserva don Thomas, che ci faccio qui?

CARLO CARRETTO, ARTURO PAOLI, DOSSETTI…

Tuttavia, non sempre la reazione di fuga nasce dal senso di vuoto di una necessaria, ma inconcludente routine quotidiana: battesimi, matrimoni, funerali ecc… Carlo Carretto e Arturo Paoli si trovavano ai vertici di un’Azione cattolica trionfante, quando decisero di seguire le orme di Charles de Foucauld, all’inizio degli anni ‘50. Dossetti fece una scelta analoga nel 1951, quando fu eletto per la seconda volta vicesegretario di De Gasperi. Le sue dimissioni spianarono la strada a Fanfani. Dietro al disagio che ha rovesciato le scelte originarie di engagement sta una convinzione: che con le tue opere puoi cambiare radicalmente il mondo, che lo puoi “salvare”. Emerge una sorta di ὕβϱις (ybris), una sindrome di onnipotenza. Solo che, alla fine, scopri che “le opere” invece di liberare il mondo, hanno fatto schiavo te. Le opere possono generare il deserto spirituale, anche se sembrano svettare come i grattacieli nella città.

CI SI CREDE ONNIPOTENTI. E INVECE

E così il prete o il militante scoprono di non essere affatto i funzionari del regno di Dio in terra, di Cristo Re o dell’Assoluto o del Progresso o della Liberazione umana, ma solo dei modesti travet, al servizio di opere, che a poco a poco li rendono schiavi. La reazione “mistica” di don Thomas – benchè l’espressione sia impropria, perché i monasteri non sono, in ogni caso, la Tebaide – appare come la denuncia di una sorta di neo-pelagianesimo, che si crede onnipotente, che ispira le comunità forti e organizzate e le “grandi narrazioni” e che, alla fine, ci espone nudi alle intemperie del mondo. Dubito che il monastero, religioso o laico che sia, possa costituire un riparo. Forse bisogna prendere atto della fragilità dell’avventura umana individuale e della storia degli uomini, attraversate da una finitudine piena di rischio e di incertezza. D’altronde, se la pratica di fede non aiuta a tener vivo il senso religioso – appunto il senso di una radicale finitudine aperta e dipendente da Altro – allora diviene una sorta di proiezione di potere sul mondo.

La direzione della storia non sta nelle nostre mani, né quella sacra né quella profana. Ci collocheremo, dunque, in una posizione attendistica? Non ci assumeremo responsabilità verso il mondo? Al contrario. In un mondo globale dove le Chiese sono minoranze, resta un nucleo forte: quello della testimonianza intransigente e quieta. Come suggerisce l’antica sapienza gesuitica: fare come se tutto dipendesse da te; fare come se nulla dipendesse da te.

I PRETI PRIGIONIERI DEL LORO CLERICALISMO

Quando a don Thomas e a tutti i preti stressati come lui dalla burocrazia del loro sacro ufficio, basterebbe che il peso fosse distribuito sul popolo di Dio. Per nessun battesimo, matrimonio, funerale, ecc… è necessaria la presenza fisica del prete. Basta un credente riconosciuto e delegato dal suo vescovo. E’ la struttura clericale della Chiesa che ha fatto del prete un impiegato oppresso e un solitario crocevia di tutte le mediazioni con il mondo. Ma qui stiamo scivolando ereticalmente nella Riforma, quella del ‘500?…