Da amministratori a testimoni. Il disagio dei preti. In margine alla rinuncia del parroco di Münster

“Non ti nascondo che la scelta di questo prete è uno dei sogni proibiti che non oso pronunciare ad alta voce per paura di autoconvincermi…”

Cosi inizia una lettera che mi scrive un amico prete riprendendo l’articolo della scorsa settimana e relativo alla scelta di don Thomas Frings  di lasciare la parrocchia e di scegliere la vita monastica. Come lui sono tantissimi coloro che mi hanno scritto: più di trenta mail, alcune sollecitate, molte spontanee. A sottolineare che le ragioni e i malesseri che stanno dietro la scelta del parroco di Münster, più o meno condivisa, sono numerosi e non si possono facilmente mettere a tacere.

Qui sotto presento solo parti di alcune lettere che mi sono giunte. Diversi mi hanno chiesto di non pubblicare nulla. Tutti, nonostante la fatica, esprimono la contentezza di essere preti.

“RESISTO”

“Spesso la risposta che do a chi mi chiede “come va in parrocchia?”  è questa: “Resisto!”. Qualche volta, lo confesso, mi trovo anche a contare mentalmente gli anni che mancano per lasciare la responsabilità di parroco (non di sacerdote!). Mi piacerebbe vivere il ministero in modo più essenziale ed evangelico (Parola, liturgia, carità), deponendo finalmente l’enorme stress che deriva dall’essere per forza amministratore, organizzatore, legale rappresentante rispetto ai quali ruoli non mi sento né preparato né chiamato. È vero che da qualche anno vanno di moda libri e film del tipo: “lascio tutto e vado a vivere in campagna”. Il monastero potrebbe essere la variante di una moda e di una fuga dal mondo. Però rimane forte l’impressione in alcuni di noi preti che la situazione ci stia “facendo fuori”, ci stia spremendo oltre misura, che non si possa durare a lungo così. Ai pochi superstiti viene chiesto sempre di più, con scarsissimi risultati e con poca comprensione dei fratelli cristiani laici per la nostra fatica.”

“Sento anch’io la soffocante responsabilità di amministrare beni e cose parrocchiali al pari di una azienda (a proposito: ma perché l’abito ufficiale del clero, giacca e camicia, è tanto simile alla divisa di un dirigente d’azienda o di uno che lavora in banca?…). Le responsabilità giuridiche e amministrativo-economiche sono un valido motivo per minare il modello parrocchiale di testimonianza evangelica. Anche il clerocentrismo, nonostante i seminari vuoti, è un altro tunnel senza uscita…”

SE IL PAPA VA BENE E I PRETI NO

“Se il papa non va bene, la gente se ne va. Se il papa va bene, però, non è ancora un motivo valido per tornare”. Credo che gran parte del problema stia proprio qui: mi dici come mai lo scandalo del prete pedofilo di turno non solo allontana la gente dalla Chiesa, ma serve a quelli che si sono allontanati a sentirsi giustificati nella loro mancanza di fede, mentre la beatificazione di don Dordi e l’esempio di tanti bravi preti lascia indifferenti e non convince nessuno ad avvicinarsi alla fede? Il vero problema di questo Papa è che paradossalmente va così bene a coloro che sono critici della Chiesa, da farli sentire a posto se non vogliono avere a che fare nulla con essa, tanto il Papa è dalla loro parte… E che dire di quei bravi ragazzi che non diventeranno mai preti proprio perché la loro bravura è sufficiente a farli sentire a posto con il Padreterno?”.

“Si, siamo ‘servi inutili’, che siamo ‘sale’ e ‘lievito’. Però non ti nascondo l’amarezza che a volte provo. La difficoltà di una comunità che non si specchia nel Vangelo, la resistenza di un modello di Chiesa fatto di riti. Diciamo sempre che la vita delle persone si è profondamente secolarizzata ma non ti rendi conto della qualità delle richieste che ci vengono fatte. Il peso di una tradizione che ci obbliga a portarci dietro tutto. La solitudine, anche con i miei confratelli, in cui spesso mi pare di cadere. Laici che, nonostante gli sforzi, sono terribilmente clericali. È come se fossimo a metà di un guado. Sappiamo di dover lasciare un modello che ha funzionato ma non regge più ma non riusciamo a intravedere dove sarà il prossimo approdo.”

BISOGNEREBBE DIVENTARE “COMUNIONE DI COMUNITÀ”

“Nella Chiesa si fa troppo affidamento a documenti e piani pastorali. A volte mi paiono il segno di non voler affrontare i problemi direttamente o limitarsi semplicemente ad esporli. Si fanno eterne analisi, continuando poi nelle stesse modalità pastorali, per convenienza o mancanza di coraggio. Le comunità di base, di cui finalmente si incomincia a parlare ma non a prenderle come criterio primo di pastorale, sono per me il modo più vero e genuino di evangelizzare; una “comunione di comunità”, dove ci si fida realmente dei laici e delle loro capacità nella costruzione della Chiesa e si smette di fare pura riflessione del Vangelo senza mai riflettere su come incarnarlo in una specifica parrocchia con scelte coraggiose. C’è ancora troppo provincialismo nella mentalità clericale e modalità antiche di pastorale che ci impediscono di vedere cammini nuovi. Oppure ci si diverte a giocare con le parole pensando che la fantasia delle parole e immagini usate dica qualcosa di più sensato e profondo di un discorso semplice ma diretto e comprensibile.”

“Cambio rotta: Da amministratori a testimoni. Non vi sembra che ci sia un ritardo, anche voluto, nel riconoscere i cambiamenti di prospettiva nel concepire l’essere Chiesa in un mondo che cambia? Non sembra che nonostante i buoni propositi messi in atto,  rimanga tutto in balia  di regole canoniche che sanno di muffa ecclesiastica  anche se trasmesse  in veste informatica? Prova ne è che una comunità al cambio del parroco, spesso si trova a dover cambiare rotta mettendo tra parentesi il vissuto di fede maturato, nonostante il Concilio abbia posto l’attenzione sulla comunità che è depositaria della memoria del Signore nella condivisione della Parola e del pane nella carità. Allora, mi sembra urgente ripensare all’essere prete in una comunità non tanto come amministrare di  sacramenti, ma come compagno di viaggio di quella comunità con  la quale condivide fatiche, gioie e speranze e si fa garante a nome del Vescovo della chiesa locale del rapporto di Gesù Cristo con quella comunità. Dunque un prete come testimone della Parola con la sua storia di fede e  sempre meno amministratore anche con la fatica e la gioia di ridisegnare insieme con i compagni di viaggio il senso di una convivenza buona e cristiana. Vivendo come testimone della sua fede  il prete va costruendo simboli (Parola e  pane condivisi nell’accoglienza) e identità in quella porzione di Chiesa”

PRETI, FIGURE DI SOLITARI

“Mi chiedo: che ideale di prete viene ancora sfornato dai seminari?  Figure di solitari, imbottiti di buoni concetti, e poveri di  relazioni? La capacità di pensare, elaborare progetti  e azioni condivise dove è confinata? In quante parrocchie ancora oggi i preti condividono il cibo, momenti di preghiera, di interessi comuni?  Con quello che ogni giorno si sta consumando sulla pelle di migliaia di profughi. Non vi sembra che la Chiesa  si trovi sbilanciata rispetto alla storia e trovandosi fuori come può essere testimonianza di speranza?”

“Noi preti non abbiamo ancora imparato a lavorare insieme, a condividere programmi e attività pastorali con i vicini; sembriamo quasi dei masochisti cui piace lamentarsi del troppo lavoro senza però la capacità e la gioia di dare fiducia ai laici della propria parrocchia e rinunciare a qualche compito che non sono neppure il nostro specifico. Peraltro anche i laici peccano spesso di uno spirito di supposta obbedienza ma che maschera la non voglia di assumersi ruoli di responsabilità anche se molte volte questo è dovuto a mancanze di stimoli e coraggio da parte di noi pastori”.

“Quest’estate ho incontrato dei missionari e ho avvertito in loro la gioia di constatare ogni giorno che il Regno cresce, che il Vangelo corre, che c’è speranza per il futuro. Noi qui ci vediamo costretti quasi solo a resistere e a tamponare le emorragie, a salvare il salvabile, a mediare tra le ostinazioni dei nostri fedeli, a prendere atto dei congedi dopo ogni sacramento preparato e vissuto con cura. Riconosco che faccio sempre più fatica a conservare la gioia e la speranza, anche se, come prete, non posso non essere uomo di fede e di speranza, non posso non andare oltre le constatazioni negative, confidando nella grazia di Dio”.

FIDARCI UN PO’ MENO DI NOI STESSI

“Credo ci fidiamo troppo di noi stessi, del nostro impegno e delle nostre capacità e meno della grazia di Dio. Ci confrontiamo troppo con i risultati raggiunti o no, senza quella fede che è fiducia che il primo costruttore è Dio. Forse pregare un po’ di più ed avere meno spirito ‘mondano’ (come dice il Papa) non ci farebbe male. Senza bisogno di ritirarsi in un convento. Anche nella vita di ogni giorno si possono incontrare mille forme di spiritualità se si è capaci di vederle.”

“Don Thomas dice di aver ricevuto molti incoraggiamenti per la sua scelta di cambiare rotta. La stessa gente che oggi gli fa i complimenti, domani si lamenterà perché il vescovo non avrà un prete da donare a quella comunità, si lamenterà perché non avrà quei “servizi” a cui ritiene di avere diritto. Chi sostituirà don Thomas e i tanti come lui? Oggi c’è bisogno anche di gente che sappia tenere duro in attesa di tempi migliori, conservando il seme della Parola e della fede, offrendo la sua vita in un servizio faticoso e poco gratificante, accontentandosi di ricevere come unica risposta: ti basta la mia grazia! La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.

“Non credo che fare la fatica di stare in una comunità sia una “fatica inutile”, ma sicuramente sono convinto che occorra trovare un modo rinnovato per ‘stare’, per essere seme e lievito, preti e comunità insieme che sappiano vivere le relazioni in maniera più vera e familiare. Vivere le relazioni come ci insegna il Vangelo, divenire portatori di misericordia e di sguardi carichi d’amore può essere il modo con cui affascinare il mondo del fascino col quale noi stessi siamo stati avvolti. È questa credo sia la fatica utile da vivere.”