Diecimila soci, 42 circoli distribuiti capillarmente sul territorio, il mondo delle cooperative sociali, le cooperative edilizie, i patronati: le Acli sono tutto questo – nonostante la crisi che ha investito in questi ultimi anni tutto l’associazionismo cattolico – e molto di più: un movimento di uomini e di idee “dette laicamente” che non si può tradurre in numeri, fatto di relazioni, iniziative di impegno culturale, sociale, politico.
Un movimento che come altri del mondo ecclesiale ha subito in questi anni una trasformazione profonda, ma guarda al futuro con coraggio e speranza, affrontando le sfide a viso aperto. E’ il ritratto che ne traccia Daniele Rocchetti, eletto ieri sera nuovo Presidente delle ACLI di Bergamo. Rocchetti ha un profilo poliedrico e nella sua biografia ci sono già impegni importanti. Sposato con Renata e padre di Francesco, Davide e Benedetta, Rocchetti ha studiato presso il Seminario di Bergamo conseguendo il Baccalaureato in Teologia. Alla fine degli anni Ottanta, ha fondato con sua moglie e un gruppo di amici, “Il Seme”, una delle prime cooperative di commercio equo e solidale della bergamasca. Da sempre attento al Medioriente, è guida di Terra Santa in Israele e Palestina. Tiene incontri di formazione nelle parrocchie e nei vicariati ed è membro del Consiglio Pastorale Diocesano. Autore di alcuni testi (l’ultimo “Cercare Dio. Un viaggio per monasteri” EDB), è giornalista pubblicista dal 1990 e collabora a diverse testate nazionali e locali. Ha una rubrica fissa sul Santalessandro (Diario di un laico). E’ stato a lungo insegnante e dal 2000 è membro di Presidenza delle Acli, dal 2012 Vicepresidente. E’ stato l’ideatore di Molte Fedi sotto lo stesso cielo, il percorso delle ACLI di Bergamo sul dialogo tra fedi e culture.
La prima sfida da affrontare per il nuovo presidente è sicuramente quella del rinnovamento, visto che nonostante la forza delle Acli, ne fanno parte “persone che hanno fatto la storia del loro territorio ma sono rispetto a una volta mediamente più anziane”.
Tra le sensibilità più importanti del movimento c’è sempre quella alle periferie, concrete ed esistenziali?
“Certo. Accanto all’azione culturale che il movimento svolge – spiega Rocchetti – ci sono le cooperative sociali che danno lavoro a più di 600 persone e si impegnano a rimettere al centro ciò che sta in periferia, la marginalità, la fragilità, la disabilità. Sono l’espressione più generativa del mondo Acli. Anche il settore delle cooperative edilizie, che per vent’anni ha permesso di dare una casa a chi aveva meno risorse, subisce oggi una trasformazione profonda. C’è meno bisogno di case nuove, ma di più di housing sociale rispetto al quale forse le Acli possono giocare la loro partita. Anche con il Patronato, il più forte dal punto di vista numerico nella Bergamasca, incrociamo tutta una serie di situazioni limite. Anche il Caf, sportello per la dichiarazione dei redditi, incrocia più di trentamila persone. Il mondo Acli è complesso, plurale, variegato risponde all’intuizione di alcuni uomini e donne che settant’anni fa hanno preso in mano il Vangelo e hanno voluto ridirlo, laicamente, nella città, ma avendo come stella polare tre riferimenti: il Vangelo, la democrazia e i lavoratori, ma riformulando continuamente gli strumenti con cui era possibile essere fedeli a queste tre linee”.
Negli ultimi anni quali sono state le sfide più importanti?
“Lo scenario in cui ci muoviamo è profondamente cambiato. Papa Francesco dice che non siamo di fronte a un’epoca di cambiamenti, ma a un cambiamento di epoca. E in questo scenario completamente nuovo ci occorrono delle mappe. Mi pare che noi, Acli di Bergamo, abbiamo cercato di andare oltre i frammenti di realtà, e di individuare se non teorie compiute almeno delle mappe di riorientamento. Lavorando nei territori si sente fortissimo lo smarrimento diffuso tra le persone, le comunità civili ed ecclesiali. Avvertiamo un’incapacità di sintesi condivisa, come se il nostro tempo non riuscisse a trovare le ragioni per le quali stare insieme. E mi pare che le Acli là dove sono lavorino con la vocazione di ridire il Vangelo stando sulla soglia, oltrepassando il recinto del mondo ecclesiale e muovendosi abbastanza felicemente in quello civile e politico. Cerchiamo di aiutare la gente attraverso strumenti come il confronto e la parola: Pensiamo a cosa hanno generato Molte fedi e i Circoli di resistenza. Intento è quello di stare dentro e non subire questi cambiamenti. E di ricostruire continuamente le ragioni dello stare insieme”.
Cambia anche il modo di essere cristiani?
“Certamente, in modo radicale. Noi vediamo sostanzialmente due pericoli: da un lato c’è chi si arrocca sul mondo antico sperando di riprodurlo. Sono i credenti che sognano di ricostruire la cristianità perduta e sono pregiudizialmente ostili a ogni forma di cambiamento, con riduzioni integriste della fede. Dall’altro lato c’è anche chi accetta supinamente ogni novità che segni una rottura col passato, mostrando quindi un’incapacità di discernere. Il Vangelo non ha risposte rispetto al presente, offre però delle indicazioni: la centralità della persona riconosciuta nel volto, quindi la capacità di saltare il perimetro tra centro e periferia, la predilezione per chi fa più fatica, necessità di dire che in questi cambiamenti siamo schierati per l’uomo. Siamo convinti, come diceva uno slogan latinoamericano negli anni Sessanta che non esiste centro tra giustizia e ingiustizia però non vogliamo essere schierati ideologicamente, ma come laici che capiscono di essere chiamati a ridire in modo pertinente dal punto di vista antropologico le ragioni delle loro fede, non in modo integrista ma con competenza e con laicità. Siamo in una stagione in cui anche da parte dei cristiani si sentono troppe prediche e poca politica. Non basta proclamare la necessità di valori nelle istituzioni perché magicamente si affermino, occorre sostanziare le affermazioni e quindi serve aumentare il rigore, lo studio, l’analisi per conquistare la capacità di decodificare il presente parlando all’umano e sull’umano far convergere chi è credente e chi non lo è, e magari anche uomini e donne di fedi diverse”.
Un’altra sfida fondamentale per le Acli è quella del lavoro, che ha cambiato radicalmente volto negli ultimi anni.
“Noi pensiamo che il lavoro sia uno spazio fondamentale in cui dobbiamo essere presenti. È il termometro della stabilità sociale e della stabilità politica di un’epoca. Se il lavoro è ridotto a merce e la giustizia sociale perde quota in nome dell’idolatria del profitto e di un sistema finanziario basato sulla speculazione, rischiamo di ritrovarci in tempi convulsi. Oggi tutto congiura contro il lavoro perché le scelte strategiche fondamentali lo penalizzano e lo tutelano sempre meno. Gli Stati non trovano le risorse per le politiche di sviluppo ma ne trovano spesso di copiosissime per soccorrere gli istituti finanziari. Noi invece continuiamo a pensare che il lavoro sia un luogo di costruzione dell’identità personale e collettiva. Certamente cambia nel tempo e cambiano i lavoratori. In nome della flessibilità che viene loro richiesta oggi hanno sempre meno tutele. Tra poco partirà la 15 giorni del lavoro e noi vorremmo rimetterlo ancora una volta al centro: per noi credenti vuol dire partecipare alla creazione e alla costruzione del mondo. Su di esso ci giochiamo gran parte del nostro futuro”.
L’impegno politico e la formazione alla politica in particolari dei giovani sembrano oggi sempre più necessari. Su questo fronte come si muovono le Acli?
“Le Acli hanno dato vita con altri soggetti a We Care, la scuola della politica, molto frequentata e già diffusa da tempo su tutto il territorio bergamasco. Continuiamo a pensare che la politica sia una forma alta di carità: per noi vuol dire costruire la città dell’uomo a misura d’uomo. Non abbiamo la presunzione che difenda i valori cristiani, è invece il luogo di costruzione dell’umano. E noi veniamo invece da una stagione che questo l’ha negato. Dopo il tramonto della Democrazia cristiana i cattolici si sono trovati smarriti, si sono rifugiati in un’isola fatta, se va bene, di indifferenza ma spesso anche di ostilità e pregiudizio. Noi riteniamo che si debba stare in politica secondo le sue regole, cercando la costruzione graduale del bene comune collaborando con chi appartiene a famiglie culturali e religiose diverse dalle nostre”.
E per quanto riguarda il rapporto con altre religioni?
“E’ una delle sfide più grandi. Ero a cena con Gad Lerner e lui raccontava di essere stato in Uganda dove il 52% della popolazione ha meno di 15 anni. Nel nostro continente la natalità è al minimo storico. La mobilità delle popolazioni è inevitabile, bisogna capire quale atteggiamento scegliamo di adottare: esasperare la paura oppure, pur riconoscendo che ci sono dei problemi, trovare una strada per affrontarli. Bisogna andare verso la convivialità delle differenze, questo è uno sforzo che le Acli di Bergamo proseguono da oltre 10 anni anche con Molte fedi sotto lo stesso cielo: cerchiamo di trovare le condizioni per imparare la grammatica degli altri e costruire una terra di mezzo dove incontrarsi. Con un’avvertenza: non si diventa esperti di dialogo senza che ognuno faccia tesoro della propria esperienza spirituale, che per noi è la vicenda di Gesù di Nazaret, da conoscere, da amare e da approfondire. Ci vogliono attenzione e insieme coraggio, la Chiesa è la più grande comunità universale meticcia cosmopolita da sempre. È una strada irta di fatiche di problemi anche gravi però mi sembra che sia senza ritorno”.
Associazioni e movimenti del mondo ecclesiale oggi possono avere ancora un ruolo?
“Certo. Le forme cambiano, ma c’è la voglia di ritrovarsi, di lavorare insieme. Trovo commovente per esempio che ci siano così tante persone, oltre 1700, da Piazzatorre a Schilpario, che hanno voglia di ritrovarsi per leggere un libro. C’è il desiderio di socialità, di avere un orizzonte condiviso, di avere una prospettiva di senso che aiuti a decodificare il presente. Può essere che le forme e modi con cui questo è stato vissuto in passato non rispondano più ai tempi di vita delle persone. Nell’epoca moderna che ha reso liquido tutto sono diventate molto labili le appartenenze. Bisogna trovare le forme e modi più congrui. È paradossale che più il nostro tempo rivendica il diritto di ciascuno di avere la propria libertà e il diritto di scelta tanto più però la gente ha voglia di ritrovare le ragioni che ci legano insieme. È una dimensione di socialità che è resistita nonostante l’ubriacatura dell’individualismo. Questa è una sfida che tocca tutti, non solo la Chiesa ma anche partiti e sindacati. Le Acli sono nate per questo, per questa speranza condivisa. Credo che abbiano davanti un grande futuro, come sarà non lo so, ma se avremo cura per le persone in carne ed ossa e la voglia di costruire una città a misura d’uomo altre forme le troveremo”.