Verità per Giulio Regeni. La madre: «Era in Egitto per fare ricerca, lo hanno torturato. Vogliamo sapere che cosa è successo»

«Sono la mamma di Giulio». Nei giorni scorsi nella sala del Senato dedicata ai morti di Nassiriya, davanti alla stampa italiana ed europea, durante la conferenza convocata dal senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione per i diritti umani, una madre ha chiesto verità e giustizia, determinata a combattere per ottenere quell’unica risposta che conta e che finora manca. Per quale motivo suo figlio «un cittadino contemporaneo» è stato ridotto in quel modo, assassinato in circostanze poco chiare.
Paola Deffendi e suo marito Claudio Regeni hanno dovuto sopportare un dolore atroce: la morte del loro figlio Giulio, 28 anni. Il giovane ricercatore italiano è stato ucciso in circostanze misteriose in Egitto, sparito il 25 gennaio, il corpo di Giulio è stato ritrovato il 3 febbraio con segni di tortura, alla periferia del Cairo. Finora le risposte provenienti dall’Egitto sono state insufficienti, anche se lo stesso presidente egiziano Al Sisi in un’intervista a “Repubblica” si era impegnato a raggiungere la verità. L’ultima pista investigativa conduce a una banda legata ai Servizi egiziani, una delle tante “squadre della morte” che lavorano abusivamente per le forze di polizia locali che avrebbero catturato, torturato e infine ammazzato Giulio alla ricerca di chissà quale verità che il ragazzo non conosceva.
Anche mamma e papà Regeni cercano la verità e finora hanno raccolto solo continui depistaggi. Adesso basta, anche perché il caso Giulio Regeni non è isolato: 508 cittadini egiziani negli ultimi 15 mesi hanno condiviso l’orribile sorte del ricercatore italiano, è questa la denuncia di Amnesty International. Sono stati 88 i casi di torture nei primi mesi di quest’anno in Egitto, 8 dei quali conclusisi con la morte, 464 le sparizioni “forzate” in carceri segrete e basi militari nel 2015, secondo il centro “El Nadeem”.
«La morte di Giulio non è un caso isolato. Non è morbillo, non è varicella. La parte amica dell’Egitto ci ha detto che l’hanno torturato e ucciso come un egiziano. Forse non saranno piaciute le sue idee. E forse era dai tempi del nazifascismo che un italiano non moriva dopo esser stato sottoposto alle torture. Ma Giulio non era in guerra, non era in montagna come i partigiani, che hanno tutto il mio rispetto. Era lì per fare ricerca. Eppure lo hanno torturato», dichiara Paola Deffendi Regeni, e il tono di voce della donna dall’accento friulano, ex insegnante d’inglese alle elementari, non è mai sopra le righe, ma pacato e fermo nel suo intervento, al quale hanno partecipato anche l’avvocato dei Regeni, Alessandra Ballerini e il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury.
«Crediamo che le parole della madre siano più forti di qualsiasi immagine», dichiara l’avvocato Ballerini riferendosi alla possibilità di diffondere le fotografie di Giulio eseguite all’obitorio della Sapienza, gesto estremo ma talvolta necessario, per smuovere le acque, come quel dolore che ha condotto i coniugi qui, dietro questo tavolo per raccontare chi era davvero il loro figlio. «Giulio era andato in Egitto a fare ricerca era un ragazzo come tanti invece è morto sotto tortura. Non era un giornalista né una spia, ma un ragazzo contemporaneo, un cittadino italiano, un cittadino del mondo che studiava. Anzi un ragazzo del futuro», commenta mamma Paola, mentre prima papà Claudio aveva ripercorso la storia e le attività di suo figlio dai suoi 12 anni, quando era diventato sindaco dei giovani nel paesino di Fiumicello, in provincia di Udine, dove il ragazzo era nato, fino all’arrivo in Egitto dove era iscritto a un dottorato di ricerca.
«Giulio stava passando un periodo molto felice della sua vita, sia dal punto di vista di vista personale sia del lavoro» ha detto il padre Claudio. «L’ultima foto che abbiamo di Giulio è del 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, quella in cui lui ha il maglione verde e la camicia rossa. Non si vede, ma davanti a lui c’è un piatto di pesce e intorno gli amici, perché Giulio amava divertirsi. Il suo era un viso sorridente, con uno sguardo aperto. È un’immagine felice», ricorda Paola Deffendi. Ma c’è un’altra immagine, impossibile da dimenticare ed è quella dell’obitorio, la quale «con dolore io e Claudio cerchiamo di sovrapporre a quella in cui era felice».
L’Egitto, il Paese che Giulio tanto amava e rispettava, ha restituito ai suoi genitori un volto completamente diverso. «Al posto di quel viso solare e aperto c’è un viso piccolo piccolo piccolo, non vi dico cosa gli hanno fatto. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui».
Nella sala tutti tacciono, Paola riprende nel silenzio. «All’obitorio, l’unica cosa che ho ritrovato di quel suo viso felice è il naso. L’ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso». Ma questo non è ancora il tempo delle lacrime, anche perché la signora Deffendi confessa di avere il blocco del pianto, «forse mi sbloccherò quando capirò davvero cosa è successo».
Sia Paola sia Claudio Regeni aspettano l’incontro del 5 aprile tra gli investigatori di polizia di Roma e quella del Cairo, allora sarà fatto il punto della situazione e le autorità egiziane consegneranno tutti gli atti richiesti dagli inquirenti italiani. I coniugi Regeni non pensano che sarà consegnato il colpevole o i colpevoli della morte orribile del loro figlio. Non si aspettano l’ultima parola, ma chiedono che l’attenzione rimanga altissima. Per ottenere ciò occorre che la mobilitazione continui.
Nel frattempo il nostro Paese se non ci saranno passi avanti sull’inchiesta sul caso Regeni da parte del Cairo sta pensando a sanzioni, come il blocco gli scambi commerciali tra Italia ed Egitto e al ritiro dell’ambasciatore.
È enorme la lezione di forza, di dignità e di coraggio di Paola Deffendi Regeni, la quale sa bene che con le sue parole pone una tanto urgente quanto doverosa questione politica e diplomatica. Alla quale va data al più presto una risposta.