Amleto a Gerusalemme in scena al Teatro Donizetti. Gabriele Vacis: «In Palestina la gente si chiede ogni giorno se essere o non essere»

La stagione di prosa del Teatro Donizetti chiude in bellezza con lo spettacolo “Amleto a Gerusalemme” di Gabriele Vacis e Marco Paolini, uno spettacolo realizzato con un gruppo di ragazzi palestinesi che, dal 2008, hanno frequentato la scuola del Palestinian National Theatre di Gerusalemme Est, nata sotto l’egida del Ministero degli Affari Esteri Italiano e della Cooperazione per lo Sviluppo. Chiamato a lavorare con loro, il regista torinese Gabriele Vacis ha costruito un percorso che, partendo dal testo scespiriano, ha poi affrontato una serie di temi e di problemi legati alla vita quotidiana dei ragazzi.

Gabriele Vacis, perché avete scelto un testo come l’Amleto di William Shakespeare per lavorare con i ragazzi palestinesi?
«Perché in Palestina le persone hanno bisogno quotidianamente di chiedersi se “essere o non essere” se agire o non agire, hanno la necessità quotidiana di fare scelte e di misurarsi con l’eredità dei padri perché la loro condizione di vita è legata a quello che i padri hanno lascialo per loro. La Storia pesa tantissimo e così hanno un mandato dai padri, specialmente i giovani, che dice: “vendicami”, proprio come Amleto e quindi devono decidere come comportarsi. Quindi ci siamo interrogati su questo, abbiamo usato Amleto come una sorta di guida che ci dà suggestioni e che ci fa domande ».

Chiariamo però che lo spettacolo non è la classica messa in scena dell’Amleto.
«Assolutamente no. Abbiamo estratto dal testo alcuni temi, alcuni sono quelli di cui già dicevo: la vendetta, l’eredità dei padri, anche un certo modo di intendere la solitudine di chi deve fare le scelte e li abbiamo declinati nelle loro storie quotidiane. Io ho fatto delle lunghe interviste ai ragazzi palestinesi, chiedevo per esempio “ma tu quando hai avuto voglia di vendicarti?” perché, in quale occasione?».

Loro conoscevano già il testo o lo avete proposto voi?
«L’hanno proposto loro. Mentre io pensavo che mi proponessero testi come “Madre coraggio di Brecht” o Dario Fo, testi più politici. Bisogna tenere conto che i testi classici come l’Amleto sono tradotti in arabo classico e nello spettacolo loro recitano, ovviamente, in arabo classico…».

Ecco, infatti, uno dei problemi che volevamo sollevare era proprio quello della lingua
«Loro parlano inglese però c’è un continuo meccanismo di traduzione. Il pubblico deve immaginare di essere a Gerusalemme e a Gerusalemme tu parli inglese con qualcuno, poi ti fai tradurre da qualcuno dall’arabo, poi cerchi di esprimerti a gesti come facciamo quando ci troviamo in un qualsiasi paese straniero, lo spettacolo è così. Infatti una signora, dopo lo spettacolo, mi ha detto: “sono stata Gerusalemme e la ringrazio perché lo spettacolo mi ha fatta ritornare”».

Facciamo un piccolo passo indietro, come è nato questo progetto?
«Nel 2008 una giovane funzionaria che adesso è assistente alla regia, Marianna Bianchetti della cooperazione internazionale a Gerusalemme, ha avuto l’idea, dato che non esisteva, di costituire una scuola di teatro. E quindi ha preso contatti con l’Ente Teatrale italiano che all’epoca esisteva ancora e gli hanno detto “l’unico matto che può fare una cosa del genere è Gabriele Vacis, chiamiamolo” e quindi mi hanno convinto, abbiamo fatto una summer school nel 2008 e i ragazzi che si vedono in scena hanno cominciato facendo questa scuola poi hanno fatto un loro percorso e adesso sono attori molto bravi».

Che ruolo ha Marco Paolini in tutto questo?
«Marco Paolini è il padre, è la vecchia Europa, è quello che ci accompagna in questo viaggio, è un viaggiatore, non un turista, è uno che va a Gerusalemme e guarda e ascolta è una sorta di mediatore culturale».

Non un narratore, quindi?
«No, perché certamente lui racconta le sue impressioni di viaggio, racconta anche tutto quello che ci serve per comprendere lo spettacolo ma più che un narratore è un viaggiatore».

Lo spettacolo registra ovunque il tutto esaurito, segno che avete toccato un tasto sensibile
«Il pubblico ci segue ».

Oltretutto cade nel quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare.
«Quando abbiamo cominciato questo progetto, nel 2008, nella scuola avevamo cominciato a lavorare su Amleto e quindi non pensavamo all’anniversario poi le ricorrenze sono belle, sono un’occasione per ricordare le cose e quindi va benissimo».

Un autore come Shakespeare  dopo 400 anni continua a interrogarci e a lasciarsi interrogare.
«Perché è un classico».

Solo per quello?
«Questo lo spiega Paolini nello spettacolo: dice che noi, quando leggiamo i classici, con un definizione che abbiamo rubato a Calvino, anche se leggiamo per la prima volta Amleto è come se lo rileggessimo perché ci troviamo delle cose che sentiamo e che pensavamo di aver pensato noi e invece le troviamo lì, scritte molto meglio di come le abbiamo pensate noi ma sono proprio quelle che abbiamo pensato noi e alcuni autori, che sono i grandi, hanno questa capacità di andare a scavare nel profondo dell’anima e dire i sentimenti che tutti proviamo in modo esemplare. Rimane nel corso dei secoli perché sono sentimenti fondamentali a partire da quello che dicevo prima, per esempio: che cosa ci lasciano i padri, che cosa è l’eredità, che rapporto possiamo avere con chi ci fa dei torti? e poi ci sono temi anche molto importanti: vale la pena di vivere?, per cosa val la pena di morire?»

Un’ultima cosa, questo interminabile conflitto israelo-palestinese avrà mai fine? E il teatro può essere un mezzo per risolverlo?
«Noi, con i ragazzi, abbiamo fatto un percorso proprio di consapevolezza rispetto a che cosa possiamo fare e abbiamo utilizzato anche qui la figura di Amleto e gli spunti che ci vengono dal testo scespiriano. Questa sembra una situazione irrisolvibile e probabilmente lo sarà ancora per tanto tempo finché qualcuno non farà la scelta che uno dei ragazzi fa. A un certo momento, citando il profeta Isaia, uno dei ragazzi dice, io faccio una cosa nuova e la cosa nuova è “io sono Amleto e voglio vivere” e questo è il desidero che hanno i giovani palestinesi, non vogliono più saperne di essere coinvolti in conflitti di cui hanno dimenticato le ragioni, dimenticato in senso metaforico, perché le conoscono benissimo. Con Marco Paolini abbiamo sempre fatto un lavoro di recupero della memoria, abbiamo sempre cercato di raschiare nella memoria e di tenerla viva. Ci sono dei casi come questo, invece, in cui forse bisogna rinunciare alla memoria e far prevalere l’oblio. Bisogna dimenticare la Storia bisogna dimenticare l’eredità dei padri, bisogna rinunciare all’eredità e questo è uno di quei casi: nel momento in cui qualcuno riuscirà a rinunciare all’eredità e quindi a tutto quello che in termini di conflitto le eredità si portano dietro, allora forse ci sarà qualche speranza di risoluzione».