Quando si parla di rieducazione del condannato e di umanizzazione della pena, ci si sente quasi sempre obiettare che si dedica troppa attenzione a chi ha commesso dei reati invece che alle vittime. La “giustizia riparativa” di cui parla nel suo ultimo libro (“La giustizia capovolta”, Edizioni Paoline) il gesuita padreFrancesco Occhetta, redattore de La Civiltà Cattolica, parte invece proprio dalle vittime, che definisce le “grandi assenti” di un sistema che spesso si accontenta soltanto di erogare una pena a chi trasgredisce. Riparativa perché mette in primo piano l’esigenza di riparare al danno che le vittime e la stessa società hanno subìto. Un radicale cambio di prospettiva in cui anche il tema della pena viene visto in un una luce nuova. Solo rimettendo al centro il dolore della vittima e dei suoi familiari è possibile un percorso di autentica riabilitazione del detenuto. Soltanto se si restituisce dignità alla vittima, anche il detenuto può ritrovare la sua dignità. Padre Occhetta, che nelle carceri ha operato e non solo in Italia, riferisce le parole illuminanti di un detenuto di San Vittore, a Milano, dopo l’incontro con la sua vittima: “Ora posso scontare la mia pena con responsabilità perché l’incontro con chi ho offeso mi ha restituito la dignità di uomo che il carcere mi negava”. Il libro, con la prefazione di don Luigi Ciotti e la postfazione di Giovanni Maria Flick, presenta nella seconda parte il dialogo con alcuni protagonisti (Francesco Cananzi, Daniela Marcone, Guido Chiaretti e don Virgilio Balducchi) che contribuiscono a leggere la situazione italiana nell’ottica della “giustizia capovolta”.

Carceri colabrodo o troppo comode; misure alternative alla detenzione erogate con superficialità e che diventano occasione per commettere altri reati; pene non scontate o ridotte al limite dell’irrilevanza. Inutile nascondersi dietro a un dito: nell’opinione pubblica è forte, forse prevalente, una corrente emotiva – alimentata anche da certa politica e da certa informazione – che sul pianeta carceri, e sulla giustizia penale in genere, proietta una serie implacabile di luoghi comuni. Ma qual è effettivamente la situazione?
«L’opinione pubblica si divide in giustizialista e permissivista e grida. La situazione cambia quando le persone vengono toccate nella carne perché in carcere c’è un amico, un famigliare o sei indagato…. Allora improvvisamente l’idea di giustizia e di pena cambiano. Politicizzare il tema della giustizia fa male a tutti. Nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%). Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. Senza voler criticare gli operatori penitenziari, che lavorano spesso in situazioni eroiche, va sottolineato che lo Stato spende solamente 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Per il mondo della giustizia rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Ristabilire la giustizia non significa intimidire e intimorire attraverso pene esemplari per ottenere una sicurezza maggiore. Lavorare al recupero non è un elitarismo ma è porre al centro dell’ordinamento la prevenzione generale. L’intimidazione, lo sosteneva già il Beccaria, funziona quando il controllo sociale è alto come negli Stati totalitari; nelle democrazie invece è la riabilitazione l’obiettivo della giustizia, ma quest’ultima dipende dal consenso sociale».

Che bisogno c’è di “capovolgere” il senso stesso del nostro sistema di giustizia e detenzione? Non basterebbe rendere questo sistema più efficiente?
«C’è bisogno di capovolgere il senso antropologico della giustizia e ricollocare al centro dell’ordinamento il dolore delle vittime e la dignità dei detenuti che rimangono persone anche quando sono prive di libertà. Quando gli Usa negli anni Novanta buttarono via le chiavi delle loro carceri, i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni. Ribaltare la giustizia invece significa prevedere la personalizzazione e l’espiazione della pena anche fuori dal carcere».

Come funziona – se si può dire così – la “giustizia riparativa”? Quali percorsi e quali condizioni richiede per diventare prassi concreta?
«Le condizioni pre-giuridiche che anticipano l’intervento dello Stato sono almeno tre: le vittime devono essere disposte a tematizzare il loro dolore davanti ai colpevoli; la società deve superare l’idea di carcere come discarica sociale e di pena come lo strumento che ripaga col male il male fatto e accollarsi la responsabilità attiva del recupero, della riparazione di ciò che si è rotto a livello relazionale e patrimoniale; il reo deve arrivare a prendere coscienza del male per rendersi conto di cosa ha fatto e ammettere la propria responsabilità. Un processo che può durare anche molti anni che deve essere guidato da esperti mediatori e che in alcune parti del mondo sta dando buoni risultati».

Infatti nel libro non mancano i riferimenti alla diffusione del modello della “giustizia riparativa” in altri Paesi, soprattutto in quelli di cultura giuridica anglosassone. E in Italia? Siamo pronti per questo passaggio? Che cosa servirebbe per favorirlo? E che cosa si fa attualmente?
«Manca una volontà culturale di cambiamento che la politica sta bloccando. Inoltre l’ordinamento penitenziario è restio a introdurre l’elemento spirituale (non religioso) per la riabilitazione del detenuto. Lo prova la riforma di Kiran Bedi, che alla metà degli anni Novanta, nel carcere di Tihar a New Delhi — un carcere che conteneva circa 10mila detenuti — ha ridotto la recidiva dal 70% al 10% attraverso la pratica della meditazione profonda. Dare la possibilità al reo di comprendere il proprio male è l’inizio per ogni incontro con il dolore delle vittime».

Il modello della “giustizia riparativa” è in grado di reggere la sfida anche nelle situazioni di elevata pericolosità sociale, come nel caso della criminalità organizzata?
«No. Occorre che la società in cui la criminalità organizzata si radica e vive scelga di stare non sotto il più prepotente ma sotto la legge come ci hanno insegnato gli antichi: sub lege libertas».

In che maniera il discorso sulla “giustizia riparativa” intercetta la visione biblica della giustizia? Le assonanze con la predicazione di papa Francesco sono fortissime…
«Per la Bibbia nel male che si compie c’è già la propria condanna. La concezione della pena da parte di Dio trasforma la colpa in responsabilità. La Bibbia insegna a non giudicare ma a rieducare il colpevole. Caino viene cacciato da Dio ma non distrutto: deve ricominciare un cammino dal punto in cui nasce il sole. L’espiazione è legata alla riabilitazione. Dalle prime pagine della Genesi emerge la responsabilità di coltivare una terra macchiata dal sangue del fratello ucciso perché esso non permette alla terra di dare frutto. Allora va coltivata e bonificata, e questo deve accadere a livello sociale. Qui siamo davanti ad una scelta: la scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. La politica ha una responsabilità particolare, quella della prevenzione primaria che ridurrebbe i reati, per esempio perseguire i paradisi fiscali, regolare gli appalti, contrastare le coltivazioni della droga, rinforzare l’etica della sessualità per contrastare gli abusi ecc».