Johnny Dotti: “Gli oratori generatori di speranza. Oggi devono confrontarsi con una realtà diversa. Ci vuole una nuova alleanza tra preti e laici”

Vi proponiamo un esperimento mentale: immaginate che gli oratori (con le relative sale per il catechismo, i campi da calcio e i tavoli da ping-pong, le attività per il doposcuola) improvvisamente scompaiano, in tutta Italia, dal centro di Milano al Librino di Catania, dai paesi della Val di Scalve a quelli della Sila. Non è difficile intuire – ci sembra – quali sarebbero le conseguenze sulle maglie della società civile, sulle famiglie, sui più giovani. Si insiste proprio sulla centralità degli oratori – sia in una prospettiva di fede, sia per quanto attiene al bene comune – ma si avanzano anche proposte per renderli più rispondenti alle sfide del tempo presente nel volumetto di Johnny Dotti «Oratori generatori di speranza» (Edizioni Messaggero Padova, pp. 96, euro 9,00, con una prefazione di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, postfazione di don Emanuele Poletti). Dotti, classe 1963, è da molti anni impegnato nel «terzo settore» a livello nazionale ed europeo (pedagogista, già fondatore di Welfare Italia, vive attualmente in una comunità di famiglie a Carobbio degli Angeli e conduce un «laboratorio di analisi e gestione dei fenomeni sociali complessi» all’Università Cattolica di Milano).
Vogliamo partire da un’etimologia? Nelle prime pagine del libro, si sottolinea come «oratorio» derivi da “orare”, pregare, ma rimandi ulteriormente a “os”, “bocca” e per estensione “linguaggio”, parola trasmessa da persona a persona. Gli oratori sono luoghi in cui ancora ci si parla, cosa oggi non propriamente scontata?
«Aggiungerei un’annotazione importante, dal punto di vista antropologico: la “parola” è di più di un “termine-lemma”, perché pone in relazione il parlante e l’uditore; le parole – che hanno anche bisogno di essere intervallate dal silenzio – possono vivificare o distruggere, fondare alleanze o causare inimicizie. In un tempo come il nostro, in cui sembra diffondersi un “pensiero binario” che si disinteressa della complessità della vita, occorrerebbe riscoprire questi aspetti. Trovo preoccupante che, anche in campo educativo, l’accento sempre più cada sugli aspetti tecnici, in una prospettiva efficientistica. In ogni caso negli oratori cristiani, dove si fa riferimento a una religione che al proprio centro ha un Logos-Parola, si deve coltivare il dialogo tra le persone e le generazioni».
Nel volume si ritorna sull’esempio di Don Bosco, che tra le attività dei suoi oratori attribuiva una grande importanza al lavoro, alla formazione professionale. È un’intuizione ancora attuale, nell’epoca del terziario avanzato?
«Io ne sono assolutamente convinto, tanto che sto già prendendo parte a dei progetti in tal senso. Volendo ricorrere a una formula breve, direi che negli oratori dovrebbero nascere delle “piccole imprese” che includano i minori. Già nel Cinquecento, con san Filippo Neri, l’oratorio era un luogo di formazione alla vita cristiana ma anche una bottega d’artigianato e un laboratorio musicale; questa idea, nell’Ottocento, è stata appunto ripresa e attualizzata da san Giovanni Bosco. Oggi siamo tenuti a riscoprirne il valore, in un contesto sociale evidentemente diversissimo. Io in gioventù, come molte altre persone della mia età, ho avuto l’opportunità – prima ancora che la necessità – di lavorare mentre conducevo i miei studi scolastici e universitari. Attualmente, invece, si arriva a 26 o a 27 anni senza mai aver avuto delle esperienze lavorative. Io ritengo che questo sia negativo, ma per motivi di ordine educativo ed esistenziale, non in chiave “funzionalistica”».
Cioè, non si tratta solo di istruire i ragazzi perché trovino subito uno “slot” da occupare, nel mercato del lavoro.
«No, è il senso profondo del lavoro che va sperimentato già da giovani. Questo, a maggior ragione, in una cultura ancora largamente “comunitaria”, come quella italiana e bergamasca: lavorare, dar forma concreta a un progetto, dimostrare di saper fare qualcosa che torna a beneficio della collettività, sono occasioni importantissime per definire la propria identità, per mettersi alla prova e poter conoscere se stessi. Se si asseconda invece una tendenza iperspecialistica, per cui la realtà e la vita vengono sistematicamente frammentate, queste chance non si presentano più».
In «Oratori generatori di speranza» si parla con grande ammirazione e affetto di questa istituzione, ma si evidenziano anche alcuni aspetti critici, per quanto riguarda l’attualità. Oggi si investe molto nelle strutture oratoriali, ma si ha sempre «la sensazione – lei scrive – che tutto ciò non basti».
«Nel secondo dopoguerra, in Italia, gli oratori hanno aiutato la gente a entrare in contatto con le forme di una modernità che si potrebbe definire “fordista”: all’ombra dei campanili le persone hanno avuto modo di godere del loro tempo libero, di fare sport, di esprimere la loro personalità. Oggi innumerevoli altre agenzie offrono tutto questo: non si tratta, naturalmente, di chiudere la sala cinematografica parrocchiale o di dismettere il campo da calcio, ma di inserire questi luoghi e risorse tradizionali in una nuova prospettiva, ispirata ai principi della fede e del bene comune».
Anche il “microcosmo oratoriale” deve fare i conti con gli effetti della globalizzazione?
«La fede del cristiano si orienta su Gesù, che è una persona reale, non un’idea. Proprio per questo gli oratori devono confrontarsi con la realtà, con la vita del mondo circostante. Credo si debba tener conto soprattutto di tre macrofenomeni che caratterizzano l’epoca presente e che sono destinati a intensificarsi nel prossimo futuro: il primo riguarda l’aumento della speranza di vita, con l’ovvio risultato che avremo una popolazione mediamente sempre più anziana, mentre il momento dell’uscita dall’adolescenza sarà sempre più in là nel tempo (e gli oratori dovranno dunque declinare le loro proposte educative anche sui ventenni o i trentenni). Il secondo punto riguarda i grandi flussi migratori verso l’Europa e l’Italia, che non si arresteranno affatto – è evidente – quando sarà terminata la guerra civile in Siria. La terza tendenza è quella di una sempre maggiore pervasività della tecnologia, che spesso si traduce in una “tecnocrazia”. Nei decenni a venire, bisognerà formare dei cristiani capaci di confrontarsi con tutti questi aspetti».
La gestione effettiva degli oratori dovrà essere sempre di più affidata ai laici?
«Sì, ma questa necessità non va intesa in modo angusto, come se il laicato tornasse buono quando non c’è più a disposizione un prete per via della carenza di vocazioni. Si tratta invece di stabilire una nuova alleanza, in forme anche inedite, tra diversi carismi distribuiti nel popolo di Dio. Nel mio libro, avanzo delle proposte che ho già avuto modo di esporre al vescovo Francesco Beschi e al direttore dell’ufficio diocesano per la pastorale dell’età evolutiva, don Emanuele Poletti, che ha firmato anche la postfazione del volume. Ritengo, per esempio, che si potrebbe dar vita a una vera e propria “congregazione laicale”, particolarmente impegnata nell’educazione delle nuove generazioni, nell’ambito oratoriale. Ne farebbero parte persone che si impegnassero pubblicamente a svolgere tale servizio (non necessariamente a tempo pieno) per un periodo che potrebbe andare dai due ai sette anni. Questa congregazione dovrebbe darsi uno stile, una regola, un metodo educativo: i suoi membri dovrebbero saper costituire delle “alleanze generatrici” con le famiglie, con le associazioni presenti sul territorio, con la scuola. In questo modo, senza rinunciare per nulla alla propria identità cristiana, l’oratorio si collocherebbe in una trama di rapporti vitali, entro un insieme più vasto».