Il nuovo sindaco di Londra. Un segno di speranza e non solo per Londra

CHI È SADIQ KHAN

Il neo-eletto sindaco di Londra, partito laburista, ha raccontato a “Business Insider” la propria storia: “I miei genitori hanno lasciato il Pakistan per trasferirsi a Londra nel 1960, mio padre ha fatto l’autista di autobus per 25 anni e mia madre cuciva abiti per mantenerci”. Sadiq Khan è il quinto di otto figli, sette fratelli e una sorella. Di sé dice: “Io sono britannico di estrazione pachistana, sono europeo, sono un uomo asiatico, sono un londinese, sono un avvocato, un padre, un marito, un tormentato fan del Liverpool”.

UNA PRIORITÀ: L’EUROPA

Le sue priorità: “L’integrazione, la sicurezza, l’inquinamento e l’Europa”. Su quest’ultimo tema ha promesso che si coordinerà con Cameron, il premier conservatore: “Ci sono temi per i quali i partiti vanno messi da parte. I benefici culturali e sociali dell’Europa a Londra sono enormi, ma è per l’economia che l’Europa è fondamentale. Mezzo milione di posti di lavoro a Londra dipendono dall’Europa. Il 60% delle principali società mondiali ha il quartier generale europeo a Londra”. Sì, ma come la mettiamo con l’Islam? “Puoi essere occidentale e di fede islamica. Le due cose sono compatibili. Abbiamo tutti molte identità… Chi parla come Trump fa il gioco degli estremisti. Crea divisione e odio. Spero che la mia campagna e la mia vittoria possano far capire anche al mondo politico statunitense che l’unione può vincere sulla divisione”. Intanto la cerimonia di investitura ha voluto che avvenisse in una chiesa cristiana e, alla sua prima uscita pubblica, ha commemorato l’Olocausto. Dunque, puoi essere islamico, entrare in una chiesa cristiana, rendere omaggio alle vittime dell’antisemitismo.

Come si vede, “il caso Sadiq Khan” è un caso di globalizzazione virtuosa. In un futuro non lontano ne appariranno altri sulla scena globale e locale.

L’ISLAM E LA SUA POSSIBILE METAMORFOSI

D’altronde, le identità molteplici già oggi si intrecciano nelle nostre vite in misura qualitativamente diversa rispetto agli anni pre-globalizzazione, la dialettica tra globus e locus si è fatta più frequente e più stringente, torna una nuova proiezione della fede religiosa, anche l’islam si presenta, almeno qui, attraverso la distinzione/separazione europea tra fede e politica. Lavare i panni nel Tamigi è dunque stato utile per la nuova lingua politica di un credente islamico. In effetti, due sono le questioni che l’elezione di Khan ci mette sul tavolo. La prima è quella della possibile metamorfosi dell’Islam. A confronto con una civilizzazione europea consapevole di sé e intransigente circa i propri valori, l’Islam può cambiare. È toccato alla Chiesa cattolica, lungo i secoli: le rivoluzioni intellettuali, scientifiche e politiche l’hanno costretta a separare radicalmente le ragioni della fede dalle pretese del potere, proprio e altrui. Questa mutazione non sarebbe stata possibile, se la nuova tavola laica dei valori uscita dal ‘600, dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese non fosse divenuta, poco a poco, una civilizzazione diffusa e condivisa. La Chiesa cattolica ne ha preso atto con ritardo. È toccato al Concilio Vaticano II siglare un nuovo patto tra fede, società moderna e politica. È possibile che possa accadere anche per l’Islam? Il caso Sadik Khan accende speranze in questa direzione.

LE FEDI RELIGIOSE E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETÀ

Il che apre una seconda questione/domanda più larga. C’è ancora un ruolo per le fedi religiose nella costruzione della città terrena della globalizzazione, per usare l’immagine di Sant’Agostino? Khan sembra pensare di sì, al punto da non vergognarsi a confessare il proprio orientamento religioso. Una risposta teorica positiva a quella domanda è tanto possibile quanto potenzialmente irrilevante. È possibile, come dimostra la storica discussione tra il filosofo tedesco J. Habermas e J. Ratzinger, raccolta nel libro “Ragione e fede in dialogo”. Alle spalle sta sempre il teorema di Böckenförde, secondo il quale lo Stato liberale sta in piedi su presupposti che non é in grado di giustificare. Ma resterebbe ai confini dell’irrilevanza, se non camminasse sulle gambe della prassi sociale e politica quotidiana. È lì che la fede religiosa deve dimostrare la capacità di partecipare alla costruzione della città dell’uomo senza la pretesa di trasformare in leggi le proprie credenze. È lì, come suggerisce J. Habermas, che occorre anche da parte laica-non credente “una frequentazione autoriflessiva dei limiti dell’illuminismo”. Detto più semplicemente: “La tradizioni religiose provvedono ancora oggi all’articolazione della coscienza di ciò che manca. Mantengono una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall’oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodottO distruzioni immani”. Se la teologia politica è finita, la fede può continuare a svolgere un rilevante ruolo sociale, civile e indirettamente politico, senza con ciò trasformarsi in “religione civile”, come sognano gli atei devoti.

Che cosa tutto ciò potrà significare per il governo di una città mondiale come Londra si vedrà a breve.