Papa Francesco in Armenia. Antonia Arslan: «L’identità di questo popolo è impastata di cristianesimo»

Con il viaggio apostolico nella Repubblica d’Armenia il prossimo 24-26 giugno, Papa Francesco andrà a rendere omaggio alla prima nazione al mondo che storicamente adottò il cristianesimo come religione di Stato più di 1700 anni fa. Le tappe più importanti di questo viaggio saranno sabato 25 giugno la visita al Tzitzernakaberd Memorial Complex, il Memoriale dell’eccidio degli armeni sotto l’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916. A Gymuri, seconda città più popolosa in Armenia colpita da un violento sisma a fine anni Ottanta, alle 11 Francesco celebrerà la Santa Messa e visiterà la Cattedrale armeno apostolica delle Sette Piaghe e la Cattedrale armeno cattolica dei Santi Martiri. In serata, di nuovo a Yerevan dove alle 19 vi sarà un Incontro Ecumenico e Preghiera per la Pace nella Piazza della Repubblica. Una missione quella in Armenia dal grande significato simbolico il cui motto del viaggio è “Visita al primo Paese cristiano” e il logo raffigura il Monte biblico Ararat.
Abbiamo intervistato Antonia Arslan, laureata in lettere, già professoressa di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, scrittrice e saggista italiana di origini armene, che ricostruisce la storia dell’Armenia e del suo popolo tra passato e presente, quel Paese che ora aspetta Francesco. «La visita di Bergoglio in Armenia è un evento di particolare importanza, perché questa nazione che è rimasta cristiana nonostante le stragi, le pressioni, le conversioni forzate durante gli anni terribili del 1915 e nei successivi, rimane fedele a questa sua scelta che è per gli armeni identitaria. L’identità armena è impastata di cristianesimo, pensiamo al Monte Ararat, monte simbolico dell’identità armena che si trova raffigurato nel logo della visita papale. Ebbene, ora il Monte Ararat è in Turchia, è stato in qualche modo “donato” alla Turchia a suo tempo da Stalin. Adesso gli armeni dalla loro capitale, Yerevan, vedono il monte che incombe sulla capitale. L’Ararat c’è e non c’è, nessun armeno può provare a scalarlo, perché è proibito. Il Santo Padre potrà toccare con mano la realtà di questa piccola repubblica, la più piccola delle ex 15 repubbliche sovietiche, che dopo la proclamazione dell’indipendenza nel 1991 continua faticosamente il suo cammino alla ricerca di un futuro migliore. Qui la democrazia è una conquista faticosa, la situazione economica è fragilissima» chiarisce la Arslan.
Il 24 aprile 2015 è stato ricordato il centenario del genocidio del popolo armeno iniziato dall’ex Impero Ottomano. Quel Metz Yeghern, il “Grande Male” che ha causato la morte di oltre un milione d’innocenti ed è sempre stato circondato da un’impenetrabile cortina d’indifferenza lunga un secolo. Per quale motivo?
«Il termine “genocidio” è una parola coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944. La realtà della Shoa si capisce molto più chiaramente se si vede la connessione con il genocidio armeno. Durante la I Guerra Mondiale, la Germania era alleata con l’Impero Ottomano, allora si trovavano in Turchia alti ufficiali dell’esercito, industriali, commercianti e ingegneri tedeschi che costruivano la ferrovia. Quindi il silenzio che la nuova Turchia ottenne sulla tragedia armena dopo il Trattato di Losanna (1923) indebolì qualsiasi riflessione su questa nuova forma di sterminio. D’altra parte bisogna ricordare che nel 1915 e fino alla fine della I Guerra Mondiale del genocidio armeno si parlò moltissimo, come del resto testimoniano i giornali dell’epoca. Il silenzio è frutto di “un patto scellerato” tra le potenze occidentali, Francia, Inghilterra e Italia che firmarono il Trattato di Losanna con la Turchia di Mustafà Kemal. Dico “patto scellerato”, perché da allora non si parlò più del genocidio armeno. Da allora in poi la parola “Armenia” subì una “damnatio memoriae” completa. Quindi mi ha fatto piacere che il Papa, il 12 aprile 2015 durante il saluto rivolto ai fedeli nella basilica di San Pietro all’inizio della messa per il centenario del martirio armeno, durante la quale Bergoglio ha proclamato Dottore della Chiesa San Gregorio di Narek, grande mistico medievale, abbia definito il massacro degli armeni come “primo genocidio del XX Secolo”. Alla frase di Francesco fa ora seguito la sua visita in Armenia, sulle orme della visita pastorale di San Giovanni Paolo II avvenuta nel 2001».
Se fosse dipeso da Bergoglio, il viaggio in Armenia sarebbe stato portato a compimento già l’anno scorso in occasione del centenario del genocidio armeno. Quanto ha influito in questo ritardo il fatto che il Pontefice avesse pronunciato la parola “genocidio” durante la messa commemorativa a San Pietro, in occasione del centenario dei massacri del 1915?
«Non saprei, posso solo dire che ogni volta che un Capo di Stato usa la parola “genocidio” nei confronti degli armeni, il governo turco ritira subito il suo ambasciatore. Ciò è avvenuto in Francia e recentemente in Germania quando ai primi di giugno il Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco, ha votato quasi all’unanimità una risoluzione di valore simbolico che riconosce il genocidio della popolazione armena da parte delle forze ottomane nel 1915. Anche in Italia ci furono problemi. Quando il Papa ha parlato di “genocidio armeno” nell’aprile dell’anno scorso, si è venuta a creare una crisi diplomatica tra Turchia e Santa Sede. Dopo aver convocato il nunzio apostolico, la Turchia ha richiamato il suo ambasciatore per protestare. Il governo turco ancora oggi si trova su posizioni quasi surreali di totale negazionismo. Forse questa non sarà l’opinione di tutti i turchi, ma il governo di Ankara resta fermo sulla sua posizione».
È vero che i cattolici in Armenia sono una minoranza?
«Sì, sono circa 270-290 mila, tra l’8 e il 9% della popolazione, storicamente erano più rappresentati nell’attuale Turchia orientale».
Per Papa Francesco “la maggior parte delle persone sulla terra si dichiarano credenti e questo dovrebbe portare a un dialogo tra le religioni. Solo attraverso il dialogo potremo eliminare l’intolleranza e la discriminazione”. Concorda con la riflessione del Santo Padre la cui visione è di costruire ponti e abbattere mura?
«Sì, ma occorre stare attenti, perché i ponti sono a due direzioni, è una bellissima idea quella di Francesco, molto umana, però bisogna avere prudenza. Non a caso le virtù cardinali sono prudenza, giustizia, fortezza e temperanza».
Uno dei grandi sogni di Bergoglio è di riuscire a pacificare turchi e armeni. “Una cosa che mi sta molto a cuore è la frontiera turco-armena: se si potesse aprire, sarebbe una cosa bella”. Papa Francesco riuscirà a compiere questo miracolo?
«Me lo auguro. Quella frontiera è stata chiusa unilateralmente dalla Turchia e l’Armenia appena indipendente ha rischiato di scomparire proprio perché la grande frontiera con la Turchia, basta osservare la carta geografica per capirlo, è stata sigillata. Tutto doveva arrivare in Armenia via Georgia o via aerea. Gli armeni hanno subito nel 1993/94/95 anni di blocco energetico spaventoso, hanno chiuso le scuole e sono stati costretti a vivere in casa. L’Armenia si trova nel Caucaso, in inverno si raggiungono anche 30° sottozero».
Attraverso la Sua produzione letteraria, citiamo tra gli altri “La masseria delle allodole” (Rizzoli 2004), “La strada di Smirne” (Rizzoli 2009) “Il rumore delle perle di legno” (Rizzoli 2015), i lettori italiani hanno avuto modo di conoscere la persecuzione del popolo armeno. Ce ne vuole parlare?
«Premetto che gli armeni che vivono in Italia sono al massimo 3000, tutti gli armeni della diaspora guardano all’Italia domandandosi come mai con così pochi armeni, qui si parla tanto di Armenia. Sì, gli italiani hanno scoperto la tragedia armena mediante la lettura de “La masseria delle allodole”, i fratelli Taviani si sono innamorati dell’argomento e hanno girato l’omonimo film nel 2007. È stata una bellissima avventura, come è bello che in tante scuole si continui a parlare del genocidio armeno. Considerato che io sono metà italiana e metà di origine armena, ciò rende la mia parte armena veramente felice».