Brasile. Capre, disinfettanti e carezze agli orfani: le opere di misericordia secondo don Alfonso Pontoglio

Quest’anno don Alfonso Pontoglio festeggia il cinquantesimo anno della sua ordinazione. È un momento speciale, che vogliamo condividere con lui, ripercorrendo le tappe della sua missione in Brasile; attraverso l’evoluzione della chiesa e le sue opere di misericordia.

Don Alfonso venne ordinato sacerdote dall’allora vescovo di Bergamo, Clemente Gaddi, e dopo aver svolto per un anno la funzione di curato nella parrocchia di Loreto si trasferì a Verona per intraprendere il Seminario di Teologia per essere poi – dopo l’ordinazione – mandato in missione. «L’America Latina in quegli anni aveva forte bisogno di sacerdoti – racconta don Alfonso -. Papa Pio XII nella sua ultima enciclica chiamata “Fidei Donum”, i doni della fede, invitava le diocesi ricche di clero a prestare alcuni sacerdoti alle chiese dell’America Latina, perché era l’unico continente già cristiano di per sé, che stava però perdendo fedeli per mancanza di clero. Fu però papa Giovanni XXIII ad attuare questo desiderio, a seguito della morte di Pio XII. Egli fondò un Seminario per l’America Latina, dove anche padre Alfonso studiò Teologia». Dopo qualche anno divenne papa Paolo IV, e fu indetta una speciale giornata per festeggiare i missionari destinati all’America Latina: tra i  72 futuri missionari c’era anche – appunto – don Alfonso. Il suo primo periodo “brasiliano” si svolse dal 1967 al 1980.

Chiedo a don Alfonso a quale paese fu destinato e lui risponde: «A Limoerio, nella diocesi di Nazaré da Mata, che fa parte di Recife, la città  più  importante  della zona».

DUE SACERDOTI PER QUARANTAMILA ABITANTI

Don Alfonso come si sono svolti quegli anni? Come avete organizzato la vostra parrocchia? «Una parrocchia là è grande; nel paese ci sono 40000 abitanti. 15000 sono concentrati in città, gli altri sono sperduti. La cappella del villaggio più distante è a 29 km, un’altra è a 15 km e quindi c’è molto da girare. L’impostazione pastorale è molto diversa dalla nostra. Soprattutto per la mancanza di clero, i laici si assumono la responsabilità di guidare le cappelle dei villaggi. Organizzano le feste, si incaricano di chiedere aiuto per la manutenzione e altro. Sentono la chiesa come una cosa loro. Noi parroci il primo lunedì del mese siamo in una cappella e il martedì nell’altra. La gente sa i giorni in cui c’è messa e accorre sempre numerosa».

La gente è povera ma allenata alla condivisione: «Non hanno da mangiare – spiega don Alfonso – ma ti offrono la gallina più grossa che possiedono. Una sera per essere riconoscenti, non avevano altro, mi offrirono una specie di latte cagliato. Avevo fame. Lo provai. Si sparse poi la voce che mi piaceva, così tutti lo seppero e me lo fecero trovare in tutti i villaggi, tutte le volte che andavo a far loro visita. Si sentiva molto l’assenza di sacerdoti, lasciavamo le ostie consacrate e nei villaggi l’incaricato le distribuiva al villaggio. Prima o poi succederà anche qui in Italia, se le vocazioni continuano a calare. Tornando alla loro situazione, nonostante la chiesa là sia organizzata in maniera differente, essa funziona e ogni cappella ha il proprio responsabile».
Il lavoro per i sacerdoti è molto: «Eravamo in due, perciò là ogni domenica battezzavo venti bambini. I matrimoni sono comunitari. Si decide una domenica e in quella giornata si celebra il matrimonio di otto o dieci coppie. Non si celebrano invece i funerali perché è impossibile tenere il passo con l’alta mortalità. Un incaricato laico prega per il defunto, lo porta nella chiesa alla presenza dei parenti e legge il Vangelo. Ogni anno si riuniscono incaricati delle varie cappelle, per dare un po’ di insegnamento su come impostare questi momenti. Una volta ho voluto seguire gli incontri per sentire cosa dicessero durante la preghiera, se tutto funzionava al meglio o se vi erano problemi. L’incaricato stava facendo la sua piccola omelia. Sono riuscito a sentire le seguenti parole :”guardate lei è qui in mezzo, dobbiamo pregare per lei perché un domani saremo noi qui e gli altri pregheranno per noi.” La meditazione sulla morte mi è piaciuta tantissimo,- e dice scherzosamente- pensai: “bene, la chiesa va avanti anche senza i preti, con i laici».

NON C’E’ FRETTA: IN BRASILE C’È TEMPO PER TUTTO

Gli abiti da sposa si noleggiano: «Fuori dalla chiesa madre – dice don Alfonso – c’è un uomo che per lavoro fa di tutto: sarto, calzolaio e altro ancora. Egli possiede anche tre vestiti da sposa,  una taglia per donne di corporatura smilza, un altro per le più formose, e il terzo una via di mezzo. Quando le donne vanno lì, trovano sempre “in affitto” l’abito adatto per sposarsi.  Un’altra cosa che mi ha colpito del Brasile è che loro trovano il tempo per tutto. Non hanno fretta. Per esempio, un giorno ero con un amico, eravamo andati in città, a fare un bagno nella civiltà, per vedere un film o altro. Siamo tornati verso le cinque e abbiamo visto che la chiesa era piena di gente, abbiamo capito solo dopo che era il giorno dedicato  ai matrimoni. Ce ne siamo dimenticati! Il matrimonio era fissato alle cinque, noi siamo arrivati alle sei. Appena arrivati, ci siamo scusati.  Loro ci hanno risposto di non preoccuparci  e ci hanno confidato che anch’essi erano appena arrivati. Là non c’è il senso del tempo. Noi ne diventiamo schiavi, mentre per loro invece è diverso, c’è sempre tempo per fare tutto».

CAPRE E DISINFETTANTI: OPERE QUOTIDIANE DI MISERICORDIA

La misericordia è tema fulcro del Giubileo. Avete realizzato qualche opera in particolare? Ce le vuole raccontare? «Quando si parte in missione – continua don Alfonso – si portano sempre un po’ di soldi, dati da amici o provenienti dalle offerte. Li abbiamo sempre spesi oculatamente, molte esperienze sono andate in fallimento, mentre altre hanno funzionato. Per prima cosa comprammo 30 capre, le affidammo alle famiglie più bisognose, così almeno potevano bere del latte la mattina. Organizzammo bene il tutto, con delle ragazze che passavano a controllare ogni qualche giorno. Non funzionò perché le capre se le mangiarono. Da subito io e don Luigi, invece, ci siamo accorti della mancanza di igiene. Vedevamo che c’era troppa mortalità infantile e abbiamo scoperto poi a cosa fosse dovuta: al tetano. Lo prendevano attraverso il taglio del cordone ombelicale. Abbiamo chiamato tutte le persone dei villaggi. Alle donne più accorte consigliammo di partecipare ai vari parti, di collaborare e di disinfettare gli strumenti da taglio, magari usando come alcool la cachaca, un tipo di liquore distillato, oppure passare le lame sul fuoco per uccidere i microbi. Addirittura, poi, i nostri consigli sono stati enfatizzati a tal punto che i medici della città cominciarono a rilasciare un documento nel quale le donne incaricate per necessità a dare il loro aiuto durante i vari parti, dichiaravano di aver frequentato un corso organizzato da me che non so niente di medicina e non ne avevo tenuto nessuno. Una delle opere migliori che realizzammo fu la realizzazione di un particolare tipo di orfanotrofio. Lo realizzammo nel 1972, assieme a un prete di Treviso, morto tre anni fa. Raccogliemmo vari bambini di strada, orfani di genitori vivi perché l’abbandono dopo il parto lì capita spesso. Cominciammo con 22 bambini, fu una cosa straordinaria. Non volevamo metterli in un grande edificio. Comprammo cinque casette, i bambini li dividemmo in cinque gruppi. Ogni gruppo aveva la sua casettina e  una donna responsabile, cosicché  questi bambini alla sera potessero ricevere  da una persona cara una una carezza e la buonanotte -sottolinea con tenerezza -, cose che non hanno mai avuto. Adesso quest’opera funziona ancora».

DAL BRASILE A BERGAMO. E RITORNO: LA MISSIONE E’ PER TUTTA LA VITA

Don Alfonso prosegue il suo racconto – biografia parlandomi a malincuore di quando fu richiamato in Italia da monsignor Oggioni, nel 1980, il quale gli disse: «La tua esperienza da missionario è durata per parecchi anni, tu sei prete diocesano, hai già fatto la tua presenza in Brasile; ora sei pronto per rientrare in diocesi». Rientrato quindi in Italia, svolse la sua attività nella parrocchia del Sacro cuore oltre a quelle di Rosciate e di Entratico. Ma il suo cuore batteva ancora forte per la terra Sudamericana. Troppo era il legame  con quella gente che non aveva mai dimenticato e anche il vescovo brasiliano più volte gli chiese di tornare. Una “saudade” che porta ad una richiesta di ritorno,  fatta all’allora vescovo di Bergamo Roberto Amadei nel 2010 e allora fu rifiutata. Ma don Alfonso non si diede per vinto e un anno dopo la richiesta fu rinnovata e indirizzata a l nuovo vescovo Francesco Beschi, che rispose così, secondo il racconto del missionario: «Non ti lascio partire, io ti invio. Missionario vuol dire inviato e il tuo vescovo ti invia a predicare il Vangelo ai nostri fratelli brasiliani; però ricordati che non hai più venticinque anni come la prima volta, ora ne hai settanta, perciò se ti accorgi dopo un periodo di tempo che non ce la fai, non fare l’eroe, rientra in diocesi e io ti accoglierò sempre a braccia aperte». Fu affidato alla stessa parrocchia? «Si, ancora nella parrocchia di Limoeiro in cui sono padre insieme a don Raimondo. Era il mio chierichetto, ci siamo ritrovati, e tra poco ritornerò l’ultima volta per sostituirlo, perché lui andrà in ferie. È stata una sua richiesta, io ero già pronto a passare gli ultimi miei anni qui, l’ho esaudita e quindi passerò ancora un periodo tra loro, per poi concludere. Il mio ritorno in Brasile dopo l’esperienza negli anni Settanta è durato quindi dal 2011 al 2016».
Concludo chiedendogli: “Quanto  è cambiato il Brasile durante tutti questi anni? «È cambiato molto dagli anni ’60. Quando sono rientrato nell’Ottanta  e sono poi  ripartito nel 2011, sono passati trentuno anni, durante i quali, per le ferie, ritornavo sempre. C’è stato un cambiamento paragonabile al boom economico in Italia: il Brasile lo sta vivendo in questi ultimi anni. Ci sono ancora delle sacche di povertà ma si vede anche questo notevole sviluppo, anche nelle piccole cose: hanno asfaltato molte strade e i telefoni sono dappertutto. Quando ne ho la necessità urgente so che posso usare il cellulare. Prima il contatto telefonico era molto difficile».
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