Volevo esserci anche (R)io. Elia Viviani cade e poi vince l’oro: un successo conquistato con sacrificio e fatica

Ha pianto, ha pianto come un bambino. Singhiozzava, poi riusciva a prendere fiato e smetteva, ma non appena qualcuno gli si avvicinava per congratularsi con lui, scoppiava ancora a piangere. Un pianto a dirotto, di gioia, che eruttava fuori dalla sua bocca e dai suoi occhi dopo quattro anni di fatiche, sacrifici, gioie, dolori, allenamenti meticolosi e speranze che si accumulavano ogni giorno di più, fino al giorno fatidico. Il protagonista della storia olimpica di oggi è Elia Viviani da Verona che ha conquistato la medaglia d’oro nel ciclismo su pista, specialità “Omnium”. Due giorni di battaglie a tutta velocità all’interno di un velodromo che è un catino con curve paraboliche che serve una scala per salirci a piedi, senza freni, senza protezioni, solo con un coraggio mostruoso ed una voglia di vincere che permette di andare sempre oltre al limite. Viviani ha vinto grazie alla regolarità nelle differenti prove che compongono questa entusiasmante disciplina, ma soprattutto ha vinto grazie alla sua mentalità che gli ha consentito di rialzarsi sempre dopo ogni schiaffo morale e ogni impatto doloroso, graffiante, severo dell’asfalto o della pista. Il corridore veronese infatti è ambivalente, nel senso che corre sia in pista che in strada, e dai mondiali di ciclismo su pista di Melbourne nel 2012 era ai vertici del suo sport. Era in lizza per diventare campione iridato in questa specialità, ma cadde rovinosamente nell’ultima e decisiva prova e dovette mettere da parte il sogno. E anche a Rio è caduto e anche a Rio nella prova decisiva proprio mentre tutto sembrava viaggiare sul binario giusto: la telecamera che stacca sulla testa della corsa, il rumore di un tonfo violento che entra nei microfoni fino ad arrivare a noi telespettatori e la voce desolata dei due commentatori, Francesco Pancani e Silvio Martinello, che ci riporta immediatamente alla caduta fatale a Vincenzo Nibali per la gravità del loro tono. L’istinto è di inveire contro gli dei dello sport, ma lo sguardo di Viviani inquadrato in primo piano ci fa ben sperare: fisicamente è integro, ha gli occhi iniettati di sangue per lo spavento e il nervoso che in quel momento tenta di impadronirsi di lui ma senza successo perché l’azzurro si rialza, cambia bici e si rimette a pedalare a testa bassa. Fino alla vittoria conquistata con talento e doti caratteriali immense. Quindi la parte del pianto, quella più significativa. Dietro a quelle lacrime c’erano quattro anni di preparazione a questa corsa, si nascondevano tutti gli allenamenti svolti per arrivare tirato a lucido, c’era la dedizione di un uomo e di un atleta che mette tutta la sua professionalità per vincere e realizzarsi. Credo sia sbagliato considerare tutto questo un dovere di ogni atleta, un programma che tutti gli atleti seguono, una qualità scontata, un aspetto da non evidenziare “perché tanto si sa che è così”. No, ci vietiamo di pensarla così. Il messaggio è profondo per i giovani, atleti o non atleti, perché Viviani ha detto con la sua vittoria (e senza troppe chiacchiere) che ogni traguardo si raggiunge con fatica e sacrificio, in attesa che il momento giusto per tagliarlo maturi col tempo e arrivi al momento opportuno senza aspettare che cada dal cielo, ma costruendoselo con le proprie mani. E quando la soddisfazione arriva è genuina, vera, sentita, immortale proprio come un oro olimpico. Altro che la fretta di arrivare in alto tutta di questi tempi, pretendendo di non passare dalla “gavetta” e dagli ostacoli che la vita ci pone davanti tutti i giorni; sì, forse qualche successo a qualcuno potrà anche arrivare in questo modo, ma sarà un successo destinato a sgretolarsi in poco tempo e gestirlo sarà molto complicato, perché mancheranno le fondamenta sulle quali è stato costruito. Nello sport, tutto questo, può essere riassunto anche con il terribile ‘doping’. Ecco, Viviani ha mandato un messaggio pure ai campioni da provetta.