Gridare con la vita il primato di Dio. I monaci di Lérins

Foto: il monastero di Lérins

LA STORIA DI ANTONIO, IL PRIMO 

Forse è la storia di Antonio, colui che la tradizione pone a capo del movimento monastico cristiano, a dire, meglio di tanti altri discorsi, il senso e il valore del monachesimo. Antonio è un uomo che cerca per tutta la sua lunga vita di stabilirsi in luoghi isolati e inaccessibili ma, ogni volta, viene raggiunto da visitatori e da pellegrini. Quando muore – nel 356, nell’eremo sulle montagne di Afroditopoli – Antonio è circondato, suo malgrado, da una cerchia numerosa di discepoli. Segregazione e attrattiva, fuga e richiamo: questa pare essere il doppio movimento che rappresenta due tempi di un unico respiro proprio dell’esistenza monastica, quasi a voler segnare, nella carne ma soprattutto nello spirito, una segreta nostalgia, un appello nascosto nel cuore di ogni uomo e che il mondo cerca di rendere trasparente con la sua vita. A queste cose penso mentre sono sul battello che, in mezz’ora, porta da Cannes all’isola st.Honorat, a Lerins. Dopo essere passati accanto all’isola di Santa Margherita di Port Royal – dove storia e leggenda pongono la vicenda della “maschera di ferro” – attracchiamo al piccolo molo. Sono necessari ancora quindici minuti a piedi, seguendo sentieri che separano i vigneti da pini e eucalipti, per arrivare davanti all’ingresso del monastero.

UNA PRESENZA ANTICA

“L’isola è squallida, piena di uomini che fuggono la luce. Da sé si dicono, con parola greca, “monaci” perché vogliono vivere soli, senza che nessuno li veda. Temono i doni della fortuna, mentre ne paventano i danni: ma che sorta di pazzia furiosa e di stoltezza, che può allignare solo in cervelli stravolti, non essere capaci di accettare le cose buone per paura di possibili mali”. A scrivere così è Rutilio Namaziano, prefetto di Roma che nel 414 attraversa la Gallia e si reca pure a Lerins. La sua è una testimonianza preziosa perché attesta l’antichissima presenza dei monaci, venuti sull’isola grazie a Sant’Onorato. Sono gli anni di Martino a Tours, di Ilario a Poitiers, di Cassiano a Marsiglia: anni straordinari nei quali il monachesimo – nato in Oriente nella doppia sorgente di due tradizioni – quella eremitica (di sant’Antonio) e quella cenobitica (di san Pacomio) – giunge, a poco a poco, in Occidente e nella Gallia in particolare. L’interesse, nelle nostre terre, fu risvegliato dalla diffusione di testi sui monaci del deserto, dalle migrazioni in Occidente di vescovi rifugiati come Atanasio e di singoli asceti come Cassiano (che scappavano dalle violente controversie teo­logiche che avevano il loro centro ad Alessandria) e dai racconti portati da pellegrini e viaggiatori. Onorato – dopo aver regalato le proprietà ai poveri – andò in pellegrinaggio verso l’Oriente. Ma subito dopo il 410 – gli anni del viaggio di Rutilio Namanziano – Onorato ritornò e fondò un primo monastero su una delle isole di Lérins che, nel corso degli anni, da lui prese il nome. Qui “sembrò rappresentata l’intera gamma delle esperienze del de­serto: c’era un cenobio centrale, sotto l’autorità di un abate, e anche un gruppo di eremitaggi satelliti dove i vecchi che era­no stati formati nella comunità potevano avventurarsi per vi­vere la lotta solitaria del deserto. Con le fondazioni di Marsiglia e di Lérins il monachesimo si impiantò saldamente in Gallia, e continuò a diffondersi per tutto il quinto secolo. Lérins divenne una calamita che attirava alla sua scuola aspiranti monaci e fondatori monastici dalle regioni più settentrionali dell’Europa” (Lawrence): ospitò San Benedetto Biscop e una tradizione sostiene che vi soggiornò perfino san Patrizio. Il suo ruolo non era limitato sol­tanto alla formazione di asceti: Lérins era anche un fiorente cen­tro di sapere in un mondo in cui la cultura classica stava scom­parendo rapidamente. I maestri che provenivano da questa scuola fornivano artiglieria pesante nella battaglia contro l’eresia pe­lagiana e le altre eresie che contaminavano il pensiero cristiano. Lérins fu anche un vivaio di monaci-vescovi favorendo, in questo modo, la progressiva assimilazione dell’esperienza monastica nell’alveo ecclesiale che, non dimentichiamolo, fu – per molto tempo – espressione della parte laica della comunità cristiana. Ci volle del tempo prima che di­venisse normale la pratica di ordinare coloro che entravano in monastero. Nel nono secolo, il monastero venne attaccato pesantemente dai saraceni che passarono di spada tutti i monaci. Due secoli più tardi venne costruita la torre, luogo di rifugio in caso di attacco, e venne decisa la costruzione del monastero fortificato. I secoli successivi non furono fecondi come gli inizi: l’instaurarsi della “commenda” indebolì progressivamente Lerins che non ritornò più allo splendore degli inizi. Il 10 agosto 1787 una bolla papale soppresse “il monastero denominato Abbazia di S.Onorato di Lerins”. Due anni dopo, con la Rivoluzione francese l’isola cambiò nome e venne messa all’asta. Dopo molti anni e molti proprietari, nel 1859, venne acquisita dal vescovo di Frejus che la donò ai Cistercensi dell’Immacolata Concezione, ai quali ancora oggi l’isola appartiene.

LA SENTINELLA NELLA NOTTE

Ed è un amico, monaco cistercense che ci accoglie. Pier Maria – questo è il suo nome – è di origine piemontese ed è addetto alla foresteria. L’incontro con lui è molto bello. Che cos’è il monaco? Che senso ha la vita monastica per la chiesa e per il mondo d’oggi? comincio con il chiedergli. “Mi torna alla mente la risposta data da san Pacomio al vescovo Atanasio: “siamo laici senza importanza“. Certamente a questa risposta si può rimanere disorientati; soprattutto se ci si attende una definizione precisa, una di quelle definizioni che permettono di collocare una realtà entro uno schema chiaro o di identificare una particolare categoria di persone con un determinato scopo sociale, caritativo, culturale, ecclesiale. Ma penso che questa delusione sia necessaria. “Ma cosa serve la vita monastica?”. “Istintivamente ti rispondo: ‘a nulla’. Il monaco è l’uomo dell’inutile, del gratuito. Credo che se non si esce dalla logica efficientista (logica mondana che valuta una persona o una realtà in base al servizio che rende nella società e anche… alla Chiesa), diventa difficile capire la vita monastica. Il monaco è la sentinella che cerca di scorgere nella notte la venuta dello sposo. Qui con gli altri monaci sto imparando, giorno dopo giorno, che Dio è l’Assoluto. Non bisogna sentirsi padroni della vita e delle cose. Occorre soltanto riconoscerlo per cercare ogni giorno di essere trasparenti alla misericordia di Dio.” Allora, gli dico, ha ragione lo starec Zosima dei Fratelli Karamazov quando sostiene che “i monaci non sono uomini diversi dagli altri, ma appena come tutti dovrebbero essere sulla terra”. “Sì, il monaco cerca di essere un discepolo di Cristo e condivide questa fatica con ogni cristiano: nella preghiera e nell’ascolto della Parola, nel lavoro e nella condivisione, nella fatica della conversione e nell’obbedienza alla volontà di Dio. Certamente tutto questo lo vive all’interno di uno spazio e di un tempo ben definiti: la sua vita non è nel frastuono delle città, ma ai margini di essa, in una sorta di deserto simbolico – prova a guardarti attorno! – che favorisce un rapporto esclusivo e totalizzante con il Signore. E certamente questo primato di Dio nella vita del monaco, primato che si sperimenta nel tempo dato alla preghiera, liturgica e silenziosa, alla lectio divina, alla solitudine, è l’annuncio e la testimonianza di ogni comunità monastica per la Chiesa ed il mondo d’oggi.” Ma come si può vivere tutta la vita praticando l’ascesi e la penitenza? “L’ascesi non va amata per sé stessa ma come un’opportunità per imparare ad essere vuoti e capaci di fare spazio a Dio.”

ORA ET LABORA 

La vita del monaco a Lerins, mi racconta Pier Maria, è scandita ancora secondo il benedettino invito “Ora et labora”. A vederla dal di fuori sembra una vita dura. La giornata inizia alle 3,40. Lo chiede Benedetto stesso nel prologo della sua regola: “Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l’incitamento della Scrittura che esclama: ‘È ora di scuotersi dal sonno!’ e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce di Dio”. L’Ufficio delle Vigilie dura un’oretta al termine della quale i monaci si ritirano nelle loro celle per pregare da soli. Vi è poi il tempo della Lectio divina. Alle 7,15 si recita insieme la preghiera delle Lodi, seguita dalla Messa al termine della quale segue un quarto d’ora di ringraziamento in silenzio. Il lavoro viene svolto tra le 9,15 e mezzogiorno, al mattino e dalle 14,15 alle 16,35 nel pomeriggio. I monaci sono impegnati in diverse attività: chi nella cura dei vigneti, chi nell’accoglienza (per soggiornare a Lerins si deve prenotare almeno un anno prima!), chi nell’apicoltura e chi nella rilegatoria. “Noi cistercensi – spiega Pier Maria – scegliamo per lo più attività manuali che permettono un maggior silenzio e raccoglimento, che favoriscono l’umiltà”. Dopo l’ora Sesta c’è il pranzo comunitario in silenzio con una lettura della vita di un padre della chiesa o del santo del giorno. Vi è poi il tempo di riposo e di nuovo insieme per l’ora Nona. I vespri, alle 17,45, terminano con una lunga preghiera di intercessione per tutte le necessità del mondo. Segue l’adorazione comunitaria e silenziosa davanti al SS.sacramento esposto. Un canto alla vergine nel chiostro precede il breve pasto serale e la giornata si conclude, alle 19,45, con la recita della Compieta. Una giornata passata, nei tempi di preghiera e di lavoro, per lo più in silenzio, sforzandosi di vivere quanto chiedeva Guglielmo di Thierry: “Tutti in ogni tempo, si applichino a conservare il silenzio delle labbra, contentandosi di parlare con l’affetto del cuore”. Solo dopo compieta e la domenica pomeriggio i monaci si riuniscono in gruppi, o tutti insieme, per un tempo di scambio, di condivisione, di distensione.

GRIDARE IL PRIMATO DI DIO

Arrivo a Lerins in un giorno festivo e partecipo alla celebrazione eucaristica del mattino (alle 9,50). Molta gente sale sull’isola per la messa domenicale: la chiesa è piena e tanti sono quelli che rimangono in piedi. La liturgia, sobria ed essenziale, segnata da un’eloquenza che attraversa, senza enfasi, parole e silenzi, affascina e aiuta ad entrare nel mistero celebrato. Il canto gregoriano – canto del silenzio che nasce dal silenzio, hanno scritto i medievali – è leggero, non gridato. A celebrare è l’abate che, in questo caso, è pure sacerdote. Oggi la comunità di St.Honorat è formata da una trentina di monaci, molti dei quali giovani, di diverse nazionalità. L’abate si chiama fr. Vladimir Goudrat. È medico e licenziato in Teologia Dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana con una tesi sull’Eucarestia in Baldovino da Ford. Fr.Vladimir è stato un Russia alcuni anni a seguito del padre presso l’ambasciata a Mosca. Lì si è appassionato alla liturgia ortodossa. Tornato a Parigi coltivò la vocazione monastica che lo portò a Lerins. Intenditore di musica, responsabile, fino a poco tempo fa, del canto della comunità, con alcuni monaci ha riformato le melodie e le parti cantate della liturgia e ha introdotto alcune modalità armoniche della liturgia orientale che contribuiscono a rendere ancora più belli i canti. Semplicità e bellezza si fondono dentro parole e gesti antichi che sanno comunicare anche agli uomini d’oggi. “Ci vogliono esistenze che gridano silenziosamente il primato di Dio” mi dice Pier Maria prima di salutarmi e di darmi l’abbraccio finale. Durante l’Eucarestia ho l’impressione che a St.Honorat di Lerins il primato di Dio abbia i contorni – netti – del silenzio e dell’armonia.