Il corpo delle donne come un campo di battaglia. Il rimedio? Ripartire dell’educazione

Siamo partiti dal dibattito sul divieto del burkini in Francia – che continua ad essere piuttosto vivace in rete – per allargare il discorso e approfondirlo, in particolare parlando dell’utilizzo strumentale del corpo femminile, che non è un argomento soltanto di oggi. L’intervento di oggi è di Giada Frana.

Il corpo delle donne è da sempre stato al centro dell’attenzione delle società, in ogni epoca e ad ogni latitudine, passando spesso da un estremo all’altro. L’ideale di bellezza del corpo femminile è cambiato di epoca in epoca, andando di pari passo con il variare del gusto estetico e del modo di concepire il ruolo della donna nella società. Ideali corporei spesso innaturali e diversi da un luogo all’altro, ma nel corso della storia, in qualsiasi parte del mondo esse fossero, le donne hanno sofferto per raggiungerli. Si pensi ad esempio in Cina, in cui i genitori rompevano l’arco dei piedi delle proprie figlie stringendoli in una bendatura strettissima per impedirne la crescita; o ai busti di stecche di balena, utilizzati nel ‘700 e ‘800 per avere un vitino di vespa perfetto, arrivando a spezzarsi anche le costole, fino ai tacchi ai spillo dei nostri giorni, utili per rendere le gambe più lunghe e slanciate ma non certo comodi. Il corpo come veicolo di messaggi sociali: essere una donna in carne, con forme morbide e abbondanti, fino a qualche decennio fa era sinonimo di ricchezza: le donne povere, costrette a lavorare e non potendo mangiare molta carne, erano spesso più magre o muscolose; ora invece la magrezza vince. E se un tempo il pallore era segno di distinzione sociale – in Giappone le donne si dipingevano il viso artificialmente con polvere di riso, e ancora attualmente in alcuni Paesi arabi le future spose usano una crema chiamata barouk per sbiancare la carnagione – poiché una pelle abbronzata significava lo svolgere lavori all’aria aperta e faticosi, al giorno d’oggi è quasi inammissibile non essere abbronzati e si ricorre anche agli autoabbronzanti o alle lampade per raggiungere l’obiettivo. Nella società odierna si è affermato un vero e proprio culto del corpo in cui la donna rimane la protagonista principale: basta vedere gli spot pubblicitari da cui siamo costantemente martellate, che propongono nuovi ideali di bellezza da raggiungere ad ogni costo, anche attraverso, se necessario, interventi di lifting o chirurgia estetica per assottigliare alcune parti del corpo e riempirne altre e rispondere così ai canoni dettati dalla società, decisi solitamente da uomini. Facendo sorgere non pochi problemi: si pensi ai casi di anoressia e bulimia, che riguardano principalmente ragazze, ossessionate dal peso forma. Per non parlare della mercificazione del corpo della donna: prodotti pubblicizzati mostrando parti di esso, con frasi a doppio senso e anche volgari, quando la merce in questione potrebbe benissimo essere pubblicizzata in altro modo: ma si sa, un corpo femminile (semi) nudo attira più attenzioni. Senza dimenticare le prescrizioni religiose che in teoria dovrebbero riguardare i credenti di entrambi i sessi, ma in pratica sono più evidenti sulle donne, che finiscono criticate se non li rispettano, mentre con gli uomini spesso si sorvola. Il corpo delle donna come oggetto tentatore, da coprire. Anche i vari movimenti femministi occidentali, nel tentativo di liberare la donna dalle imposizioni della società, hanno utilizzato per protestare il loro stesso corpo, in particolare modo durante la cosiddetta seconda ondata, avvenuta negli anni ’60 e passando per temi all’epoca scandalosi, come sessualità, stupro, violenza domestica, diritti riproduttivi. E oggi? La strada da percorrere è ancora lunga: pensiamo al fatto che se una donna subisce uno stupro, da vittima diventa colpevole in quanto “se l’è cercata” perché indossava una gonna troppo corta; al numero dei femminicidi che non smette di diminuire, con donne uccise perché ancora intese come proprietà dell’uomo padrone. Per andare oltre tutto ciò è necessaria un’azione condivisa, portata avanti da uomini e donne, fianco a fianco, partendo dall’educazione di base delle nuove generazioni.

 

Donna

poesia di Joumana Haddad

Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per me andare è ritornare,
e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere. E creo.
Hanno costruito per me una gabbia
affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.
Sono una donna. Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere. E creo.