Padre Pizzaballa, arcivescovo di Gerusalemme. Nostra intervista

Il prossimo sabato 10 settembre la Chiesa di Bergamo vivrà un momento di grande festa e di benedizione. Pierbattista Pizzaballa, già Custode di Terra Santa dal 2004 al 2016, verrà ordinato Arcivescovo di Gerusalemme e Amministratore Apostolico del Patriarcato. A presiedere la celebrazione di ordinazione episcopale sarà il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Sarà presente anche Sua Beatitudine il Patriarca di Gerusalemme Fouad Twal a cui padre Pizzaballa succederà come arcivescovo.

Il compito che gli si prospetta – assegnatogli d’imperio da papa Francesco che di lui ha grandissima stima – non è dei più facili. Per le difficoltà, anche economiche, in cui versa il Patriarcato, per la diffidenza di una parte del clero locale che avrebbe preferito l’elezione di un arabo, per la complessità di un mondo, bello da ammirare durante la settimana di pellegrinaggi, ma certo non facile da decifrare. Eppure Pierbattista Pizzaballa, nato a Castel Liteggio, una piccola frazione di Cologno al Serio, nei diversi incarichi assegnati, ha sempre dimostrato una grande capacità di equilibrio e di giudizio.
Durante i miei viaggi in Israele mi è capitato di incontrarlo più volte e più volte l’ho invitato per incontri pubblici in città. Sempre disponibile, è risultato ogni volta essere un osservatore acuto della realtà mediorientale, non piegato alle facili semplificazioni.
Questa intervista è un collage di alcune delle molte cose che ci siamo detti negli anni. Un ritratto fedele del nuovo Arcivescovo di Gerusalemme.

In che modo sei arrivato in Terra Santa?

In modo molto semplice. Dopo l’ordinazione sacerdotale fui mandato lì a studiare. Inizialmente non ero molto entusiasta; avrei preferito studiare a Roma. Mi ero interessato di studi biblici e mi sembrava scontato andarci. Invece il Padre superiore pensò a Gerusalemme. Ricordo il primo giorno. Era il sette ottobre del 1990. C’era la prima intifada, Saddam aveva invaso il Kuwait e si preparava la guerra del Golfo. Arrivai il giorno in cui morì padre Bagatti, il grande archeologo dei luoghi santi. Lo stesso giorno in cui ammazzarono ventidue palestinesi sulla Spianata delle moschee. Al massimo, io ero abituato a qualche carabiniere con la mitraglietta sulle nostre strade: per la prima volta, vidi sparare e uccidere. E pensai che avevo ragione a non voler venire qui. Poi l’approccio è cambiato; dopo gli studi di teologia biblica, mi è stato proposto di andare a studiare all’Università ebraica e, in quel modo, ho avuto contatto con la vita reale del territorio e delle sue comunità. È stato il mio primo, vero, incontro con la gente del posto e mi è stato molto utile e necessario per arrivare, anche spiritualmente, al cuore di questo Paese.

Dal punto di vista spirituale, cosa ha significato per te la Terrasanta? Quali doni credi di aver ricevuto da una sosta così prolungata?

La prima cosa che mi viene da dire è che la Terrasanta non lascia molto spazio agli orpelli. I cristiani sono una comunità composta da poco più di 150 mila persone e dunque, dal punto vista pubblico, sono insignificanti. I cattolici poi sono una minoranza all’interno del mondo cristiano. È molto difficile riempire le chiese, che sono tante e, quasi sempre, semivuote. Per cui la prima cosa che emerge, dal punto di vista spirituale, è la grande solitudine: sei veramente nel deserto. Mentre in Europa la vita di un religioso, di un sacerdote, è fatta di tante relazioni, in Terrasanta queste sono poche, spesso segnate da ferite: il peso della nazionalità, il pregiudizio delle culture, la fatica delle diverse denominazioni cristiane. Non puoi fingere, non ci sono palliativi: questa è stata la prima difficoltà. L’altra grande difficoltà, e pare paradossale alla luce della prima, è l’enormità di provocazioni, diverse, anche dal punto di vista spirituale. Ci sono cristiani di altre fedi con cui devi fare i conti, non teoricamente ma nella vita quotidiana. Cristiani che hanno un attaccamento e una passione per Gesù, e per quella terra, non minore della tua. Devi fare poi i conti con ebrei e musulmani, che hanno certo pregiudizi nei tuoi confronti ma che rappresentano delle provocazioni. Dal punto di vista spirituale, non puoi limitarti all’aspetto umano ma devi capire perché sono qui, cosa intendono dire, devi andare a cercare la verità nelle relazioni. Ciò ti aiuta, anzi ti obbliga, a trovare la verità nella tua relazione personale. Quello che fai con un ebreo, un musulmano, un ortodosso, ciò che provi a instaurare, non prescinde dalla verità di quello che sei, di quello che senti e che vivi. Costringe a rivederti, a rifare un discernimento profondo della tua vita spirituale.

Paolo VI diceva che esiste certo una “storia della salvezza” ma che in Terrasanta si sperimenta anche una “geografia della salvezza”. In fondo la vicenda cristiana non è un evento astratto ma ha tempi e luoghi precisi. La terra dove ora abiti in che modo ti ha aiutato a cogliere la differenza cristiana?

In Terra Santa lo impari presto: il cristianesimo non è un’ideologia, non è una teoria, non è un messaggio, è, innanzitutto, una persona. C’è la storia della salvezza e c’è la geografia della salvezza e sono necessari l’uno all’altro. Se togli la geografia, non puoi avere la storia: se togli il luogo, dove è accaduto, non hai neanche l’evento. Custodire quei luoghi, stare nella Terrasanta, non è un’opera di devozionismo sofisticato. Noi frati lo consideriamo una sorta di ottavo sacramento che consente di fare un’esperienza religiosa fondamentale. Questa è la peculiarità della Terrasanta: lega l’evento, di cui chiunque può fare esperienza, ai simboli della tua identità. Guai a perdere quei luoghi, perché perderemmo la nostra identità. L’incarnazione in Gesù è l’aspetto peculiare del cristianesimo. Gesù è amato da tutti: ebrei e musulmani, seppure in modo diverso, riconoscono Gesù come una persona significativa. Ricordo, diversi anni fa, quando ero ancora studente all’Università ebraica. Abbiamo iniziato a leggere il vangelo di Matteo ed era bellissimo: non c’era nessuna pagina problematica. Finché siamo arrivati alla resurrezione e la domanda, da allora, è sempre quella: Gesù è un bellissimo personaggio, che bisogno c’è di farne un Dio che poi risorge? Il messaggio – dicono molti ebrei – resterebbe forte anche se fosse stato un semplice uomo. Perché, voi Cristiani, dovete giocare con la reincarnazione di Dio? Questa è la difficoltà principale, anche per l’Islam.

Eppure questa terra, così ricca, che ha visto nascere il Cristianesimo, vede progressivamente ridurre la presenza dei Cristiani. Tu sostieni però che abitare quello spazio è la nostra vocazione. Come vedi il futuro dei cristiani in Terrasanta? Più brutalmente, ci sarà un futuro per i cristiani in Terrasanta?

Certamente: non è semplice né scontato ma ci sarà. Ne son convinto per fede ma anche per la mia storia. Generalmente noi guardiamo alla realtà attuale drammatica e crediamo che sia la fine di tutto ma, nella storia, ci son state fasi ben più drammatiche delle attuali e, nonostante queste, il cristianesimo è rimasto, non è scomparso. È vero che c’è una crisi di identità all’interno del mondo cristiano, in tutto il Medio Oriente e non soltanto in Terrasanta. Quello che si vede qui è forse più evidente e, per ovvi motivi, quello di cui si parla di più. Eppure succede lo stesso, seppure con dinamiche diverse, in Libano, in Siria, in Iraq. I cristiani stanno vivendo una stagione di forte crisi d’identità. Eppure la nostra fede si è sempre salvata. Non solo grazie ad una leadership religiosa ma anche perché è custodita dai semplici, dai piccoli. Basta andare in certi villaggi e trovi una fede forse tradizionale ma molto forte, che resterà sempre.

Quale e quanta consapevolezza hanno di questo i cristiani di Terrasanta?

Essi sanno di essere i “cristiani di Terrasanta” ma non sempre sanno a quale vocazione sono è chiamati. Spesso però le crisi richiamano alla vocazione e alla missione. Dopo le vicende degli ultimi decenni, la presenza cristiana si è rinsaldata, non soltanto per uno scatto d’orgoglio, ma per una presa di coscienza dell’identità della propria storia. Lo ripeto: i cristiani in Terrasanta sono meno del 2% mentre gli ebrei sono quasi 7 milioni. La nostra vocazione deve rimanere quella di essere una Chiesa di minoranza. Nel corso della storia lo siamo sempre stati. Tutte le volte che c’è stato un tentativo di diventare forti e potenti, penso alla stagione dei bizantini prima e dei crociati dopo, i tentativi sono falliti. Credo sia la identità: nel luogo dove il cristianesimo è nato, i cristiani devono essere di frontiera, non avere troppo potere e testimoniare la propria presenza con lo stile di vita. Il Vangelo passa da lì. Unicamente da li.

Una Chiesa di minoranza cosa può indicare a una Chiesa come la nostra che presume ancora di essere di maggioranza?

Innanzitutto che non bisogna avere paura. Di niente. Il fondamento della nostra fede è il rapporto con Gesù e questo prevale su tutto. Se questo c’è, non bisogna avere paura di nulla. Concretamente cosa significa non avere paura? Innanzitutto non temere l’altro per quello che è, anche quando è aggressivo e cerca di distruggerti. E poi, quando sei in minoranza, devi essere propositivo: non devi cercare di difenderti o di proteggerti. Credo sia questo l’errore che i cristiani hanno spesso commesso in Medio Oriente. La cosa importante è non cercare delle protezioni ma fare proposte. Che, ovviamente, possono essere accettate o respinte ma segnano la presenza vivace dentro il territorio. Senza paura, con serenità, con passione e, perché no?, con la fierezza della propria identità e tradizione.

Il Salmo 86 dice: “Là siamo nati e nascono le nostre sorgenti”. Cosa puoi suggerire, ai distratti cristiani d’Occidente, perché abbiano a cuore le vicende dei cristiani d’Oriente?

Ci sono tante cose che si possono fare. A differenze delle Chiese orientali noi in Occidente abbiamo un po’ perso il legame con la Terrasanta. Bisogna invece “sentire” quello che avviene là e sentirlo come un evento personale, che ci riguarda. Si ama solo ciò che si conosce, se non lo conosco, non lo amo. Poi bisogna andare in Terrasanta. Il pellegrinaggio è un’esperienza da vivere. Queste sono le vie: formazione, educazione, informazione ma anche esperienza personale.

Quando si fa l’esperienza del pellegrinaggio si incontrano le molte chiese orientali. Quale ricchezza spirituale viene dalla loro storia?

Sono tante. Sul piano umano, noi occidentali abbiamo molto pudore nel parlare della nostra fede; loro no. Inoltre, nel corso del tempo, abbiamo trascurato alcuni aspetti – penso al digiuno, importantissimo per i cristiani ortodossi – a cui siamo richiamati. Pensa al senso del mistero: noi occidentali vogliamo spiegare tutto, abbiamo sperimentato infiniti tentativi filosofici e teologici per dimostrare l’esistenza di Dio. Nella Chiesa orientale, più che guardare Dio occorre farsi guardare da Lui. C’è un senso di mistero molto forte, si sottolinea il valore dello Spirito Santo, della Trinità, l’incorporazione in Cristo. Sono ricchezze che abbiamo anche noi ma che forse abbiamo rischiato un po’ di perdere.

Eppure uno quando il pellegrino arriva in Terra Santa rimane più colpito dalla divisione tra le Chiese che non dalle ricchezze spirituali.

Quando parlo della Basilica del Santo Sepolcro uso spesso l’immagine del “condominio”. Come Custode ho dovuto quasi quotidianamente occuparmi di molte questioni concrete. Ci sono voluti 20 anni per discutere del restauro dei servizi igienici del Santo Sepolcro. Le discussioni erano sul fatto che ci dovesse essere o no il portacarta, come devono essere le porte; cose che sembrano da assemblea di condominio e non sono semplici, per non parlare dei restauri e delle manutenzioni. È sicuramente una fatica. Certo, se si possono spiegare non si possono giustificare aspetti che sono in sé penosi. Ma bisogna considerare il contesto: è un condominio, appunto. Il Santo Sepolcro è l’unico luogo al mondo in cui cattolici, ortodossi e armeni vivono insieme sotto lo stesso tetto. Anche da altre parti sono presenti le stesse confessioni, ma la sera ciascuno torna a casa sua: lì invece no. È la quotidianità che logora. Il cristianesimo non è mai astratto, è sempre incarnato. Così la mia liturgia cattolica per un greco è teatro; e quando suoniamo l’organo, i copti si tappano le orecchie. Per noi la liturgia dei copti è noiosa… Se dobbiamo fare un restauro, secondo quale criterio lo facciamo? Neanche della pulizia abbiamo lo stesso concetto. Le liti non sono su Gesù, ma sull’approccio culturale, che è diverso anche attorno allo stesso problema. E poi non dimenticare il bagaglio della storia che porta ad affermare le proprie differenze, per distinguersi dagli altri. Le relazioni tra i cristiani sono ferite. Da voi forse questo fatto è una teoria, ma lì si scopre in tutta la sua verità e crudeltà, senza infingimenti. La storia ci ha consegnato un bagaglio difficile. Basta pensare che anche per noi, fino a 50 anni fa, prima del Concilio Vaticano II, quelli erano scismatici, mentre adesso sono “fratelli separati”. Abbiamo compiuto un cammino, ma non tutte le Chiese hanno fatto altrettanto. Così è necessario ancora trovare un minimo comun denominatore. È per questo che nella terra di Gesù il cammino ecumenico ha tutto un altro sapore. L’ecumenismo culturale lo lasciamo a voi europei occidentali. Noi non dobbiamo dialogare per ritrovarci: viviamo già assieme. Ci conosciamo già bene: vita morte e miracoli. È un’assemblea di condominio: dobbiamo discutere della gestione della vita in comune, che prevede le pulizie, il pagare le bollette… Sono cose banali, ma anche le più difficili. Sulla pace nel mondo andiamo sempre d’accordo, ma quando diciamo “questo è mio” e “questo è tuo”… Nei condomini si litiga, perché è normale che sia così. Ma si deve continuare a vivere insieme. Il nostro non è il migliore dei condomini, ma è sicuramente uno dei più affascinanti. E che ti insegna che nessuno ha il monopolio sulla persona di Gesù. Tutti cerchiamo, in modo diverso, di riconoscere in quell’evento il senso della nostra vita e della nostra storia.