Padre Turoldo, quelle profezie scomode e il facile consenso del “dopo”

Ci siamo poi incontrati, dopo tante conversazioni al telefono, la domenica delle palme. Delle dita smisurate, protese sul tavolo di legno come avamposti del pensiero, una voce da basso d’opera, roca e oracolare, una faccia scavata, magrissima, con un naso enorme in mezzo. Gli occhi, due sentinelle giapponesi, di quelle ancora sulla torretta mentre la guerra è finita, due cagnolini che scodinzolano. Parliamo di molte cose. Prefiguriamo progetti. Sintonizziamo i rispettivi alfabeti. Mentre parliamo riceve la telefonata del suo medico a cui confessa di risentire certi dolori alla pancia. Ci salutiamo dandoci un arrivederci a presto. Non lo rivedrò più. Lo risento nelle sue parole che ogni volta mi riportano ai miei ventiquattro anni. Conservo ancora il suo biglietto di invito come una reliquia. La vera conoscenza del grande cristiano che è stato padre David Maria Turoldo non ha potuto che prendere forma molto dopo, leggendo O sensi miei, che raccoglieva anche Canti ultimi e Miei notti con Qoelet, perché ci vogliono un po’ di anni sulle spalle e tanta ingenuità persa per strada per intuire il groviglio di verità che si agita in quelle parole. Ma di questa familiarità postuma, nella quale un vago incontro ha trovato in assenza una sua forma di compimento, resta una tappa decisiva Anche Dio è infelice, trattato di teologia fondamentale redatto in forma narrativa, che assieme a pochi altri libri ha formato il mio sguardo credente. Sento però gli unanimi sospiri commemorativi di questi giorni, come tutti i sentimenti tardivi, qualcosa di poco pudico, il facile consenso del dopo, per quelle profezie che una volta addomesticate dal tempo possono circolare tranquillamente come il gatto di casa. Magari aggregate all’armamentario del mainstream spirituale dei credenti bene. Alle profezie va dato credito per tempo.