La tromba dello Spirito Santo in Val Padana. Don Primo Mazzolari verso la beatificazione

Foto: don Primo Mazzolari (1890-1959)

Non ho avuto occasione di conoscere personalmente il parroco di Bozzolo. Ho però potuto cogliere qualcosa della sua statura di cristiano e di prete, leggendo alcuni suoi libri e numerosi articoli su ‘Adesso’. Don Primo fu profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo il cuore del suo ministero. Capace di scrutare i segni dei tempi, condivise le sofferenze e le speranze della gente, amò i poveri, rispettò gli increduli, ricercò e amò i lontani, visse la tolleranza come imitazione dell’agire di Dio. Quello di Mazzolari è un messaggio prezioso anche per l’oggi (cardinal Carlo Maria Martini).

La notizia è di questi giorni: il lavoro preliminare all’apertura della causa di beatificazione di don Mazzolari è terminato e dunque il cammino verso gli altari ora può iniziare ufficialmente. Chissà se don Primo sarebbe stato contento.

Fedeltà alla Parola e alla storia

Raccontare don Primo Mazzolari (1890-1959) significa fare i conti con la vicenda di un credente profondamente radicato nella Parola coniugata con l’attenzione ai “segni dei tempi”. In una stagione ecclesiale stagnante, don Primo – lettore raffinato soprattutto di autori francesi come Peguy, Bernanos, Maritain e Mounier – cerca di leggere il Vangelo sine glossa.  Nello stesso tempo, attua una continua ricerca sui metodi e lo spirito dell’apostolato. Attorno all’apostolato ruotano i grandi temi della sua riflessione: l’ecumenismo (siamo negli anni Quaranta!), i “lontani” e il dialogo, i poveri e la rivoluzione cristiana, la pace. Finirà per far ammattire prima i fascisti (vivrà un po’ di tempo in clandestinità), poi i comunisti e, infine, anche i democristiani. Sembrò anticlericale ai vescovi e al Sant’Uffizio, per la schiettezza del linguaggio e le intuizioni sul modo di essere cristiani, di essere Chiesa in quell’epoca.

Mi dicono ‘prete anticlericale’. Ma il mio anticlericalismo è fatto con il Vangelo in mano: è un tormento, una mia angoscia, una mia colpa battuta sul mio petto, non su quello degli altri.

I suoi scritti e le sue prediche (spesso critiche nei confronti delle “eccessive prudenze”), fondate su un accostamento alle Scritture alla cui luce interpretava i fatti della vita, subirono ripetute sanzioni anche da parte dell’autorità religiosa. Don Primo accettò quelle condanne “obbedendo in piedi”. Insieme non cessò mai di riaffermare  il dovere del cristiano di rinunciare ad ogni calcolato opportunismo per testimoniare il Vangelo, anche a costo di ritrovarsi solo con la propria coscienza.

Le sue battaglie per la pace, nate anche per aver visto con i propri occhi sulle trincee gli orrori della prima guerra mondiale (lui che all’inizio era interventista), mostrarono con acutezza l’inutilità e l’immoralità della guerra. Si oppose duramente all’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. Si battè per la Resistenza incoraggiando i giovani a partecipare, si impegnò, già dal 1940, per il diritto all’obiezione di coscienza. Nella Risposta ad un aviatore scrive cosi: “Il martire che aveva coscienza di morire per Cristo ha inaugurato il regno dei figli di Dio e dei veri uomini liberi; il soldato che muore, senza sapere perché muore, porta al colmo il regno dei servi”. Nel 1955 uscì, anonimo, “Tu non uccidere”, quasi un trattato del pacifismo radicale cristiano: un pacifismo che non concede alcuno spazio ad alcuna forma di violenza.

Cadono, quindi, le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all’uomo […]. Per questo noi testimonieremo, finchè avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire”. Ed ancora “Il cristiano è un ‘uomo di pace’, non un ‘uomo in pace’: fare la pace è la sua vocazione.

In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza

Insomma, un uomo libero, un credente appassionato (andate a rileggervi alcuni suoi articoli pubblicati da “Adesso”, il quindicinale che fondò nel 1949). In quel giornale si anticipato i tempi e i temi del Concilio Vaticano II (al quale sarà invitato da Papa Giovanni ma la morte improvvisa non gli permetterà di partecipare) e si vedono con lucidità e molto prima di altri le trasformazioni in atto. Anche a riguardo della parrocchia, la cui crisi, ai suoi occhi, era evidente già allora. Cosa propone per superare questa crisi? Vale la pena rileggere il testo che ha scritto e le proposte di soluzione, di assoluta attualità.
Anzitutto, scrive che è necessario riproporre la povertà evangelica, l’urgente “scelta dei poveri”, secondo la lettera e lo spirito della prima beatitudine evangelica.
Poi insiste nel delineare un nuovo stile dell’essere preti a servizio del popolo di Dio. Don Primo richiama i pastori a cingere anzitutto il grembiule evangelico della lavanda del piedi; ad avere nel cuore i poveri “presenza più che immagine del Signore”; a salvaguardarsi dall’imborghesimento, ad essere poveri nello stile, nella casa, nel tempio; ad essere “plebani”, cioè “gents della plebe”, uno del popolo, in tutto. È da rivedere, secondo il parroco di Bozzolo, il criterio della loro preparazione seminaristica e della loro “distribuzione sul territorio”. Si deve tenere conto che “anche il prete è un uomo” e, come tale, da sostenersi anche sotto il profilo umano, per prevenirlo e metterlo al riparo da stanchezze e frustrazioni. Per questo sarà fautore della comunità presbiterale, preti capaci di vivere insieme.
Infine, sostiene con forza che la parrocchia è soprattutto composta di laici. Ma questi, per “essere nella Chiesa, non hanno bisogno di fare i chierichetti”.

Che è quanto dire: bisogna riscoprire il carisma della laicità, la ministerialità e missionarietà di tutti i battezzati.

È grave pericolo – scrive don Primo – clericalizzare il laicato cattolico… creando un duplicato d’assai scarso rendimento… In troppe parrocchie si ha paura dell’intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la testa propria e parla il proprio linguaggio.

La conclusione dovremmo essere appesa sugli stipiti delle nostre chiese:

La Parrocchia rimane la Comunità base della Chiesa, a patto che si faccia più accogliente e più adatta. Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale. Molti temono la discussione. La discussione, nei cuori profondi, anche se vivace e ardita, è sempre una protesta d’amore e un documento di vita. E la Chiesa oggi ha bisogno di gente consapevole, penitente e operosa, fatta così.

Cosi scriveva don Primo Mazzolari nel lontano 1957. Sicuri che sia cambiato molto da allora?