Scrivere con gli occhi. Diario di Marco Pedde, malato di Sla: “Così ho imparato a convivere con la malattia”

Vi proponiamo il primo pezzo di “Scrivere con gli occhi” la rubrica realizzata dal Sir in collaborazione con “L’Ortobene”, il settimanale della diocesi di Nuoro. Titolare della rubrica che, settimana per settimana, scriverà il suo diario, è Marco Pedde, barista, classe 1968, da sette anni affetto da una malattia gravissima e invalidante, la Sla. Marco, immobilizzato a letto e scrivendo, appunto, con gli occhi, grazie a un programma di videoscrittura, esprimerà “il suo punto di vista” su problematiche relative al mondo della disabilità e su molto altro ancora.

Carissimi lettori e lettrici, prima di presentarmi vorrei ringraziare chi mi ha dato l’opportunità di esternare, su questo settimanale, e successivamente sul Sir, le mie umili riflessioni. In particolare, i direttori e il carissimo amico Peppino Paffi, medico anestesista che ho avuto la fortuna e il piacere di incontrare nella mia strada, seppure in circostanze particolari della mia vita.
Ci conosceremo più a fondo, settimana per settimana. perché ho accettato con entusiasmo l’invito del direttore e le sollecitazioni di Peppino di affidare i miei pensieri a una rubrica che si chiamerà “Scrivere con gli occhi”. Cercherò di esprimere il mio punto di vista sulle problematiche relative al mondo della disabilità, nonché delle riflessioni su temi più generali.
Intanto sappiate che mi chiamo Marco Pedde, ho 48 anni, sono nuorese di nascita, con il 50 per cento di sangue gallurese e l’altra metà logudorese. Più precisamente, mia madre Maria, nativa di Loiri Porto San Paolo, piccolo paese a pochi chilometri di distanza dalla costa nord orientale e mio padre Francesco, nativo di Buddusò, paese famoso per le sue cave di granito.
Credo che questo giusto mix abbia in qualche modo contribuito a forgiare il mio carattere. Abito con la famiglia a Nuoro, in tanti forse mi avete conosciuto al bancone del mio bar del Centro commerciale o tramite mio padre Francesco che lavorava alla caciara.
Da sette anni sto viaggiando, anche se non fisicamente, per il mondo portandomi appresso sempre lo stesso bagaglio, la S.L.A., sclerosi laterale amiotrofica.
Un “bagaglio” decisamente pesante ma che, con serena fatica, riesco a trasportare.
Non voglio tediarvi su cosa è questa malattia, anche perché ormai da diversi anni, purtroppo, se ne sente parlare sempre più spesso, ma posso raccontarvi qual è stato il mio approccio ad essa.

Tutto ebbe inizio in una fredda e umida giornata di febbraio, quando la mattina mi comunicarono la diagnosi. Potete immaginare il mio stato d’animo. Mi rinchiusi nel bagno della stanza dell’ospedale e dopo aver versato litri di lacrime mi misi davanti allo specchio e rimasi, per alcuni minuti, pietrificato. La mia mente sembrava un crocevia di pensieri, ricordi di esperienze passate e soprattutto di domande su come sarebbe stata la mia futura vita. In particolare mi chiesi: “Perché a me?”. Avrei potuto chiedermi: “Perché non a me? Cos’ho io di diverso dagli altri?.

Ecco, la prima domanda racchiude tutto l’egoismo dell’uomo.

È in questi momenti così duri che emerge, in modo prorompente, il proprio carattere, la propria personalità. Questo è ciò che è successo a me. Sono sempre stato una persona razionale, a volte anche quando non dovevo. La “razionalità”, che io considero una nobile virtù, è stata, probabilmente, la mia ancora di salvezza. Essa ha avuto il sopravvento sull’ira, sulla disperazione, rassegnazione, reazioni negative in cui normalmente si è tipico cadere soprattutto quando viene minacciata la nostra salute e, quindi, la nostra stessa vita.
Il mio primo pensiero andò a mio figlio oggi dodicenne, verso cui nutro un amore smisurato e sconfinato. Come padre avevo il dovere morale di salvaguardare e proteggere la sua emotività. Non potevo permettermi il lusso di essere sopraffatto da pensieri negativi poiché questo lo avrebbe travolto come un fiume in piena. Ora, dopo un accurato lavoro psicologico che io e la mamma abbiamo intrapreso fin dall’inizio, credo che abbia preso consapevolezza della situazione e viva serenamente il contesto, almeno spero.
A volte mi chiedo se gli mancano tutti quei gesti affettuosi, come una carezza, un abbraccio, che un genitore è solito donare al proprio figlio. A me mancano moltissimo.
Una mia carissima amica, tempo fa, mi ha definito ironicamente “Mammo”. Effettivamente nella mia figura paterna c’è una sufficiente percentuale di sensibilità femminile, come credo ci sia, più o meno, in ogni padre. Forse, nel mio caso, emerge di più avendo vissuto in una famiglia dove la figura femminile è stata ed è prevalente. Di questo ne sono orgoglioso.

Ritornando al mio “bagaglio”, col tempo ho capito che questa malattia, la S.L.A., era entrata a far parte della mia vita e che dovevo imparare a conviverci.
Certo, è una convivenza forzata dalla quale purtroppo non ho la facoltà di allontanarmi.
È diventato un rapporto d’amore e odio: siamo diventati complementari io e la mia malattia. Mi ama in maniera cosi morbosa che a volte condiziona i miei rapporti interpersonali rendendomi vulnerabile.
Credo che per tutti noi sia molto importante circondarsi di persone che abbiano una positiva visione della vita (anche se è difficile scovarle) perché, per quanto mi riguarda, contribuiscono a rendere il mio percorso meno tortuoso. Questa è, in sintesi, la mia seconda vita che ha avuto inizio nel febbraio 2010.