Giovani & fede: “C’è bisogno di testimoni credibili. Se gli adulti sono tiepidi, anche i ragazzi se ne vanno”

«Sono certo che non c’è bisogno di recarsi in chiesa alla domenica, se si vuole pregare. Ognuno lo può fare per conto proprio, quando ne sente il bisogno». Oppure: «Almeno d’estate, non voglio sentirmi costretta ad andare a messa. La scuola è finita e sono in vacanza, no?». Non è che la maggior parte degli adolescenti e dei giovani di oggi si professi radicalmente atea e visceralmente anticlericale; queste e altre testimonianze confermano però che la comunicazione dei fondamenti della fede cristiana da una generazione all’altra non ha più nulla di scontato.

Come contributo a un percorso di preparazione al Sinodo dei vescovi che nel 2018 tratterà il tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, la Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo ha promosso un convegno di studio aperto al pubblico, con un titolo in forma di domanda: Si può ancora trasmettere la fede? La pastorale giovanile alla prova della secolarizzazione dolce. Che cosa si intende per «secolarizzazione dolce»? Come si è detto, nella mentalità corrente degli under 30 non prevalgono particolari odi e livori anticristiani; riscontriamo, semmai, un diffuso analfabetismo religioso («Chi ha costruito l’Arca, Noè o Mosè?» – la frequentazione di un oratorio non garantisce che si sappia la risposta) e la dimensione della fede – quando c’è – ha un ruolo vago, non di primo piano, nella definizione dell’identità personale.

Nel corso del convegno in Seminario prenderanno la parola – rispettivamente nelle mattinate di giovedì 16, venerdì 17 e sabato 18 marzo, con inizio alle 9 – lo psicoanalista Francesco Stoppa, il teologo don Paolo Carrara e l’arcivescovo abate di Modena-Nonantola Erio Castellucci (il programma completo può essere scaricato cliccando qui). A monsignor Castellucci, già preside della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, abbiamo posto alcune domande in merito alla sua relazione, che avrà per tema Trasmettere la fede alle nuove generazioni: in ascolto delle pratiche pastorali.

Vogliamo partire proprio dalle iniziative promosse nell’arcidiocesi di Modena-Nonantola, per quanto riguarda la pastorale giovanile?
«L’iniziativa più caratteristica e partecipata, avviata a Modena da ormai vent’anni, è quella dei cosiddetti “martedì del vescovo”, ai quali prendono parte ogni volta centinaia di giovani. Si tratta di incontri serali della durata di un’ora, in Avvento e in Quaresima (sono quindi una decina all’anno), condotti in modo molto semplice: ci sono una preghiera e un canto d’inizio, la lettura di un brano biblico, il commento (svolto talvolta dal vescovo o, spesso, da testimoni invitati), un momento di silenzio, un canto finale. È importante preparare bene il commento e scegliere accuratamente i testimoni, in modo che sappiano parlare ai giovani. Poi, la pastorale giovanile propone molte altre iniziative: le settimane di “convivenza” dei maggiorenni nella “Città dei Ragazzi” (che è anche sede del Centro di pastorale giovanile), la Lectio divina, i ritiri in montagna per gli adolescenti e quelli per i giovani. Infine, abbiamo la Giornata Mondiale della Gioventù a livello diocesano e, naturalmente, la partecipazione a quella con il Papa».

San Paolo, nella Seconda lettera ai Corinzi, descrive la fede dei cristiani come «un tesoro in vasi di creta»: oggi, rispetto a un recente passato, la trasmissione di questo bene alle nuove generazioni è più difficile?
«Risulta certamente più ardua, almeno in Occidente, per la complessità della situazione culturale e sociale che tutti conosciamo. Ardua, ma non impossibile. Molto spesso alla parola “giovani” noi adulti, anche dentro la Chiesa, associamo parole come “crisi”, “disagio”, “dramma”… Ora, è certamente vero che i giovani vivono situazioni di questo tipo, ma esse non sono altro che il riflesso di analoghe situazioni che si ritrovano tra gli adulti. Questo vale anche per la fede: dove ci sono adulti profondamente credenti, crescono anche giovani di fede; dove gli adulti vivono una fede tiepida, i giovani latitano».

In numerose diocesi – forse nella maggioranza? – si registra una repentina “fuga” di molti adolescenti dagli ambienti ecclesiali, subito dopo l’amministrazione del sacramento della Cresima. Come si spiega questa tendenza? A livello di catechesi, risulta difficile il traghettamento da una “fede bambina” a una più adulta, capace di reggere a un vaglio critico?
«Già, il famoso “post-cresima”… Credo, intanto, che bisognerebbe abbandonare l’espressione stessa post-cresima. I post- sanno sempre di sconfitta e rassegnazione. Ma il discorso sarebbe lungo e comporterebbe – come giustamente si sta facendo in molte diocesi – una riflessione globale sull’iniziazione cristiana. È comunque normale, da un certo punto di vista, che gli adolescenti cambino “prospettiva”, alla loro età, assumendo una posizione autonoma rispetto alle precedenti figure di riferimento. Accade nella famiglia, accade nella scuola, accade nella comunità cristiana. Chi rimane? Chi si sente accolto e accompagnato dagli adulti. I ragazzi non amano sentirsi giudicati (per la verità, neanche noi) e se accettano la correzione, è solo da coloro dai quali si sentono comunque apprezzati e accolti. È chiaro che gli adolescenti “sfidano”: provocano, mettono in questione, a volte sono indisponenti. Vogliono verificare se l’adulto “resiste”, se vuole davvero bene a loro, se sta in loro compagnia per dovere o per reale desiderio di favorire la loro crescita. La catechesi, come scrive in diverse pagine della Evangelii gaudium Papa Francesco, deve far leva sull’esperienza; non è più il tempo di una catechesi prevalentemente “cartacea” o “da tavolino”. I ragazzi hanno bisogno di essere lungamente ascoltati nelle loro domande, prima che si diano loro delle risposte».

Ma appunto, la trasmissione di un messaggio «sapienziale» – non riassumibile nelle 140 battute di Twitter – non richiede un tempo disteso? Non è in contrasto con l’andamento frenetico della comunicazione odierna?
«Il problema si pone realmente. È il motivo per cui personalmente fatico a rapportarmi con i nuovi mezzi di comunicazione informatici e, di conseguenza, ad adottare questi social network come strumenti per dialogare con i ragazzi e i giovani. Molti mi chiedono perché non sono su WhatsApp: senza giudicare gli altri, so con certezza che io non saprei maneggiare bene questo strumento e rischierei di perderci troppo tempo. Però le nuove generazioni di educatori e anche di sacerdoti, che invece se la cavano bene, hanno a disposizione un’ulteriore carta da giocare con i ragazzi. Occorre ad ogni modo educarli anche all’attesa e al silenzio, perché nella fretta e nella confusione non possono maturare relazioni profonde: né con il Signore, né con gli altri, né con se stessi e neppure con la natura».