Un cieco ci vede. E chi vede diventa cieco

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio…”.(Vedi Vangelo di Giovanni 9, 1-41).

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Il cieco non è diventato cieco perché ha peccato

Gesù si imbatte in un cieco. È un incontro che, dall’inizio alla fine, fa molto discutere. I discepoli, sulle prime, si pongono il problema del perché di quella infermità e ragionano secondo una mentalità che, nella loro società, è molto diffusa: se uno è malato vuol dire che ha offeso Dio.

Gesù risponde contestando vigorosamente quella convinzione. Quella malattia servirà di lì a poco non per denunciatore un uomo che pecca ma per esaltare un Dio che guarisce e salva. Anche in questo caso, il vangelo di Giovanni vede nei miracoli dei “segni” che dicono prima di tutto chi è Dio, che cosa fa per gli uomini, quanto è grande il suo amore per loro.

Non interessa tanto il miracolo, ma la discussione attorno al miracolo

Il racconto del miracolo è telegrafico. Proprio perché il miracolo è “segno”, l’evangelista riferisce molto più a lungo della discussione che si sviluppa attorno al miracolo che non del miracolo stesso.

Quel giorno è di sabato. Gli ebrei, quanto più sono devoti, tanto più osservano rigorosamente il sabato come tempo riservato esclusivamente a Dio. Per questo si impongono la più assoluta proibizione di lavorare. Ma Gesù, per guarire il cieco, ha fatto del fango. Dunque ha lavorato e quindi ha trasgredito il  comando del riposo nel giorno di sabato. Per Gesù, invece, quel giorno serve per manifestare la gloria di Dio attraverso il miracolo fatto proprio nel giorno riservato esclusivamente a Dio.

La comunità locale, che si riunisce nella sinagoga, istruisce un processo. Chiamano i genitori dell’uomo guarito. Questi si sentono superati dai fatti e si trincerano in una forma di prudente neutralità. Si delinea, nettamente, l’opposizione tra il cieco che ci vede e i vedenti che sono ciechi: è il senso generale del racconto. Alla fine i farisei cacciano fuori dalla sinagoga il “peccatore” che non riconosce Dio. Lo scomunicano.

Il cieco acquista non solo la vista ma anche la fede

A questo punto, Gesù, che era uscito di scena, rientra. Incontra il cieco guarito nel tempio, la “casa di Dio”. E gli chiede se crede nel “Figlio dell’uomo”. È il “titolo” che Gesù usa per definire la sua identità “divina” e il suo rapporto unico con Dio.

Il cieco proclama la sua fede e si prostra in adorazione. Il prostrarsi era considerato l’atteggiamento tipico del credente di fronte a Dio. Gesù viene quindi riconosciuto Signore, oggetto della fede di colui che era cieco e che ora ci vede e che diventa credente.

Gesù trae la conclusione. Tutto si rovescia: chi ci vede è cieco e il cieco è colui che vede davvero.

Si sta scomodi perché si crede

La guarigione dà al cieco una nuova identità, gli cambia la vita. Proviamo, infatti, a immaginare la vita di quell’uomo dopo che ha detto a Gesù: io credo, Signore. In un certo senso, la sua vita, già subito dopo il miracolo, diventa più difficile: viene contestato e addirittura dichiarato eretico. Dunque non viene contestato perché è guarito, ma perché crede. Se tutto si fosse limitato a un ricupero della vista non sarebbe successo niente. È il rapporto con Dio che crea problemi.

Essere credenti oggi non è una scelta di comodo. Quando la fede è comoda, c’è da sospettare che non è fede. Se la fede procura salute e soldi non è fede. Se la fede procura voti alle elezioni, non è fede. Certo, non si crede per stare scomodi. Ma, quasi sempre, si sta scomodi proprio perché si crede.