Padre Giacomo Costa: “La fragilità non è la fine, ma un inizio: ci fa scoprire forze che non sapevamo di avere”

“La fragilità nel contesto sociale. Quale generatività nelle situazioni di fatica e difficoltà?” è il tema del Convegno diocesano dell’ambito, appunto, della fragilità che si svolge oggi all’Auditorium Casa del Giovane di Bergamo nato «nell’intento di favorire la convergenza delle azioni pastorali su temi antropologici decisivi per la vita del popolo di Dio». Nell’ambito del Convegno, padre Giacomo Costa, direttore dal 2010 del mensile “Aggiornamenti Sociali”, tiene il primo intervento in programma dal titolo “La fragilità può essere generativa?”. Padre Costa, gesuita, nato a Genova nel 1967, presidente della Fondazione Culturale San Fedele di Milano e vicepresidente della Fondazione Carlo Maria Martini, chiarisce così il senso dell’interrogativo alla base suo contributo: «Dobbiamo rassegnarci alla durezza della nostra vita? In che modo possiamo entrare nell’esperienza di fragilità, che fa scoprire in noi forze che non sapevamo di avere e che possono cambiare il nostro modo di vivere?».

Padre Costa, in che modo la fragilità può essere generativa?

«Abbiamo sperimentato nel triduo pasquale in che modo la fragilità può essere generativa: abbiamo contemplato l’Uomo sulla Croce, che nella sua fragilità porta per tutti la salvezza, pienamente generativa di una vita nuova. Allo stesso tempo, però, quando trattiamo questi temi, occorre avere rispetto e cautela. Non si può parlare a cuor leggero di generatività a coloro che vivono situazioni di fragilità dentro le quali soffrono, senza tenere seriamente in conto le loro fatiche e difficoltà.

Fatta questa dovuta premessa, cercherò di far emergere come stiamo vivendo attualmente il tema della fragilità nella nostra società, nella realtà del nostro Paese. Pensiamo ad esempio all’immigrazione: certamente coloro che arrivano in una terra sconosciuta, senza conoscere nessuno, vivono una situazione di fragilità; ma anche coloro che accolgono, pur con le migliori intenzioni, si trovano in una condizione di fragilità. Che cosa vuol dire infatti accogliere tutti? A che prezzo è possibile farlo, o non si può? Altri ancora possono dire: “Non verranno a minacciarci, a distruggere quanto abbiamo costruito con fatica?”. Viviamo quindi tutti una situazione di fragilità condivisa.

Ricordiamo anche un’altra grande fragilità della nostra società attuale, ovverosia la questione del lavoro: i giovani ne sono privi, i quaranta-cinquantenni lo perdono… È tutta la società che è messa in discussione dal non riuscire a valorizzare il contributo di tutti i suoi membri.

Un altro punto che tratterò nel mio intervento sarà quello del rapporto tra fragilità e dialogo. L’esperienza della fragilità, infatti, è condivisa da tutti, credenti e non, ed è quindi un importante punto di partenza per la collaborazione, per un confronto e un arricchimento reciproco con persone che sono al di fuori del mondo ecclesiale e per dare a nostra volta un contributo come Chiesa. La fede che ci anima è infatti una risorsa per rileggere l’esperienza di fragilità e per cercare insieme nuove soluzioni».

Che cosa dobbiamo intendere per “fragilità”, e chi sono i fragili oggi? 

«La fragilità nella società è legata a una situazione in movimento, che cambia sempre più rapidamente e con sempre meno punti di riferimento. È importante renderci conto che la fragilità è una condizione di tutti e che tutti insieme dobbiamo assumerla e affrontarla. Le persone cosiddette “fragili”, infatti, sono tante e farne elenchi o categorie rischia di essere escludente e stigmatizzante. Il Santo Padre però ci ha aiutato a renderci conto di chi sono oggi i più fragili, aggiungendo alle persone anche la nostra sorella e madre Terra. Esiste infatti anche la fragilità nell’ambiente: pensiamo all’Ilva di Taranto, all’inquinamento nella Terra dei Fuochi, vasta area a cavallo della provincia di Napoli e Caserta. A livello globale, il pensiero va ai cosiddetti “migranti climatici e ambientali”. È chiaro che non possiamo impegnarci per le persone se non abbiamo cura anche dei luoghi dove esse vivono».

Nella “Evangelii Gaudium”, prima esortazione apostolica di papa Francesco promulgata il 24 novembre 2013, che contiene la summa del pensiero di Bergoglio sulla Chiesa di oggi e su quella che verrà, il Pontefice scrive che «è indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati». Ce ne vuole parlare? 

«Papa Francesco nella “Evangelii Gaudium” e anche nella successiva enciclica “Laudato si’” ci invita non solo a vedere le fragilità quotidiane ma anche a capire come può diventare una risorsa chi si trova a margine della società, perché non è ritenuto abbastanza efficiente e forte. Bergoglio lo ha sperimentato in prima persona nella sua esperienza sudamericana: gli esclusi, gli ultimi, ci aiutano a guardare l’insieme della nostra vita in modo diverso e ad avere soluzioni differenti. Stare accanto a loro non è assistenzialismo, ma imparare ad ascoltare il grido della terra e dei poveri, che hanno molto da insegnarci: con le loro sofferenze conoscono Cristo sofferente, sono portatori di evangelizzazione».

Sempre nella “Evangelii Gaudium” il Santo Padre lancia un appello al rispetto di tutto il creato: “Siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo”. Come rendere fattivo questo appello in un contesto quotidiano dove impera una “tristezza individualista”? 

«In questo senso la gioia del Vangelo si rivela fondamentale per immergersi nelle acque del battesimo, che vuol dire immergersi nella fragilità della condizione umana, immergersi nella vita con tutte le debolezze che implica. Tutto ciò permette a chi osa rischiare, in qualsiasi situazione si trovi, di sperimentare la gioia di una vita che è comunque sempre frutto di un dono».