La disabilità nelle serie TV Usa: abbiamo tanto da imparare. Da Touch a Speachless, contro gli stereotipi

La disabilità è un tema sempre difficile da affrontare, in una serie TV. Soprattutto se è rivolta a un pubblico giovane. Fortunatamente, gli sceneggiatori americani sanno il fatto loro.

Lo dimostrano tutte le serie in cui abbiamo conosciuto e amato personaggi “in difficoltà”, che ci hanno aperto gli occhi su realtà a molti sconosciute e su situazioni che – strano, ma vero – spesso altri hanno dipinto in modo banale e inadeguato.

Le serie TV made in USA hanno molto da insegnare ai nostri sceneggiatori. A cominciare dall’approccio generale ai disabili: anziché sottolineare la loro “distanza” dal mondo e dalla vita che il telespettatore medio considera “normali”, nelle serie TV di cui parleremo la disabilità rappresenta una condizione di normalità. Almeno per i disabili stessi e per le loro famiglie.

Nonostante le difficoltà oggettive, i sacrifici dei genitori e il livello di “allerta” sempre alto per la salute dei propri cari, i disabili del piccolo schermo ci conquistano – e ci insegnano tanto – proprio per la semplicità e la sincerità con le quali ci vengono presentati.

Pensiamo, per esempio, al bambino di Touch, la serie con Kiefer Sutherland nei panni di un padre alle prese con un ragazzino autistico: Jake non gli rende la vita facile, ma sicuramente lo arricchisce. Come padre, come uomo, come essere umano.

Facendo appello al lato più istintivo, sentimentale e sensibile di chi lo circonda, Jake riesce a comunicare in modo non convenzionale. Conquista facendo appello a quella comunicazione non verbale che solo l’amore sa capire. Le sue “fughe” improvvise fanno spaventare tutti, certo, ma alla fine si scopre che le destinazioni a cui conduce hanno uno scopo preciso.

Così come fanno le “bizzarrie” di Randy, il fratello del protagonista di My Name is Earl. Randy è un ragazzone un po’ “lento” (così lo descrivono gli stessi autori), che non è in grado di cavarsela sempre da solo: è come un bambino nel corpo di un uomo. Suo fratello, però, fa in modo di non fargli pesare in alcun modo la sua diversità: essere “diversi”, nel pazzo e irresistibile mondo (politicamente scorretto) di Earl Hickey, è un concetto relativo. E Randy è un personaggio adorabile.

E ancora: la disabilità di John Locke in Lost – di cui veniamo a conoscenza solo in seguito, visto che sull’isola cammina con le proprie gambe – viene raccontata a un solo scopo: mostrarci sì la “magia” dell’isola, ma soprattutto la determinazione del personaggio. “Non ditemi che non lo posso fare!” è il motto di Locke prima del disastro aereo che lo conduce sull’isola.

Il motto di un uomo costretto su una sedia a rotelle (per una vicenda altamente drammatica) che non ha alcuna intenzione di sentirsi “diverso”. Mai.

Anche Artie, il ragazzo in seda a rotelle di Glee, non si vede affatto – e non viene trattato dai suoi amici, ma solo dai bulli della scuola – diverso. Come tutti i liceali, Artie ha ben altro di cui preoccuparsi: amori, compiti in classe, amicizie, performance musicali… Il fatto di non poter camminare non è certo un problema, per lui. Ci pensa, spera in un futuro migliore, ma poi scopriamo che sono gli altri a volerlo “guarire”. Artie si accetta così com’è. Esattamente come fa Becky, la ragazzina con la sindrome di Down con la quale la “cattivissima” Sue Sylvester instaura un forte legame. Per poi rivelarci di avere una sorella come Becky. E un cuore che le permette di vederle e trattarle come persone assolutamente normali. Non per tutti è così, però.

Il fatto che Artie non cammini è un problema solo per chi è così cieco da non vederlo per ciò che è: un ragazzo intelligente e spiritoso.

Un bravo ragazzo come Walter Jr., il figlio del protagonista di Breaking Bad, disabile ma mai discriminato dalla sua famiglia, né considerato “debole” o “diverso” dai suoi amici. Un grande esempio di come i genitori giusti (sì, perfino quelli che si danno al traffico di droga…) facciano davvero la differenza nella vita di un ragazzino in difficoltà.

Un esempio che ci porta dritti dritti fino alla serie regina in fatto di disabilità, arrivata in Italia solo venerdì scorso e già capace di farci imparare tantissimo.

Sto parlando di Speechless, ritratto delle avventure quotidiane della famiglia DiMeo e della “guerra” di mamma Maya (Minnie Driver, candidata agli Oscar per Will Hunting – Genio ribelle) affinché il figlio JJ, affetto da una grave paralisi cerebrale, conquisti la migliore qualità della vita possibile.

Speechless affronta il tema della disabilità con grande ironia, grazie a una schiera di personaggi un po’ “pazzi” ma profondamente umani, amorevoli e sensibili. Un’ode al coraggio di chi si alza ogni mattina sapendo che dovrà combattere contro pregiudizi, ignoranza, mancanza di infrastrutture e diritti che dovrebbero essere tali ma, a quanto pare, perfino nella civilissima America contemporanea vanno conquistati.