Carlo Casalone: la medicina è strumento a servizio dell’uomo, non un potere minaccioso

«Guarire talvolta, spesso dar sollievo, sempre consolare»: per secoli questo motto – che alcuni datano al Cinquecento, con il chirurgo Ambroise Paré, e altri addirittura ai tempi di Ippocrate – ha riassunto i doveri del medico anche nei confronti di malati inguaribili o prossimi alla morte. Oggi, tuttavia, la questione di quali cure si possano/debbano praticare nelle situazioni di «fine vita» appare più complicata che in passato.
Su questo tema abbiamo interpellato il gesuita Carlo Casalone, docente di Teologia morale della vita fisica a Napoli, presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale. Laureato in Medicina nel 1981 all’Università di Milano, padre Casalone è entrato pochi anni dopo nella Compagnia di Gesù; presidente della Fondazione Carlo Maria Martini, è autore di numerosi articoli di argomento bioetico (tra i suoi volumi, ricordiamo Medicina, macchine e uomini. La malattia al crocevia delle interpretazioni, edito da Gregorian University Press – Morcelliana).
Soprattutto nei casi drammatici di richieste di eutanasia, le scelte attinenti al «fine vita» hanno oggi un’eco vastissima nei media e nell’opinione pubblica. Rispetto al passato, siamo divenuti più sensibili alla dimensione soggettiva della malattia? Sono i progressi della medicina a sollevare interrogativi che un tempo non si ponevano?
«È vero che la medicina può oggi intervenire con grande incisività in tutte le fasi della vita. In altre epoche si veniva al mondo e si chiudevano gli occhi in casa, mentre oggi il parto e la morte avvengono molto spesso in ospedale. Per un verso questo ha condotto a grandi progressi, ma per un altro ha suscitato nuove domande. Alcune situazioni cliniche non avrebbero neanche potuto verificarsi, senza gli interventi che oggigiorno siamo in grado di attuare: per esempio, il tanto discusso “stato vegetativo permanente” è strettamente collegato a tecniche di rianimazione che in passato semplicemente non esistevano. Da questo punto di vista, anche per la medicina vale quanto avviene per la tecnologia nel suo complesso: da “strumento” per contenere e incanalare le forze insidiose della natura, essa può assumere il volto di un potere minaccioso, da cui l’uomo deve a sua volta difendersi. Qui si infrange il mito illuminista di un progresso illimitato ed emerge l’esigenza di procedere con discernimento, perché l’impresa scientifico-tecnologica sia al servizio della persona e del suo sviluppo integrale, senza escludere la sua libertà. In questo senso fu cruciale la svolta del Codice di Norimberga».
Che venne elaborato – lo ricordiamo – nel 1947, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
«Sì, e tale codice stabiliva l’assoluta necessità del consenso dell’ammalato per legittimare l’atto medico (articolo 1). Questo, sotto la spinta di un insieme di fattori, come l’ampliamento delle possibilità terapeutiche, ma anche una tendenza “paternalista” a decidere a nome dei pazienti, fino al caso estremo degli abusi perpetrati dai medici nazisti. Il consenso libero e informato, pur con tutte le difficoltà che si incontrano nella concretezza della pratica medica e della sperimentazione clinica, cerca di dare il giusto spazio alle scelte del malato».
Ma il principio della libertà di scelta del malato non rischia spesso di essere inteso in chiave sostanzialmente retorica, o perfino “ideologica”? Per esempio: un conto è trovarsi a dover decidere della propria vita “nel vuoto pneumatico”, in assenza di indicazioni e garanzie; un altro è sapere di poter comunque contare su una rete di sostegno, a livello sanitario e assistenziale.
«La libertà della persona malata è certamente il fattore determinante in ogni trattamento medico. Ce lo ricorda non solo la nostra Costituzione (agli articoli 13 e 32), ma anche il Catechismo della Chiesa Cattolica. In riferimento alle fasi conclusive della vita, il Catechismo afferma che “le decisioni devono essere prese dal paziente” (n. 2278), idea che peraltro il Magistero aveva già espresso in precedenza. Naturalmente questa posizione rispettosa della volontà del malato esclude qualsiasi abbandono terapeutico, mantenendo salda la convinzione dell’obbligo di accompagnare un paziente e di essergli vicino perché la sua libertà sia debitamente sostenuta. È quanto mai ingannevole pensare l’esercizio della libertà in modo astratto, avulso dalle circostanze concrete in cui è inserita: occorre tenere presenti i rischi dei condizionamenti culturali e della fatica psicologica. Fra questi condizionamenti metterei anche una concezione della libertà di tipo individualista, che la riduce ad autodeterminazione, trascurando gli aspetti relazionali, che rendono responsabili della propria vita nei confronti degli altri. L’accertamento della volontà dei pazienti in situazioni critiche è quindi un percorso delicato, allo stesso tempo necessario e laborioso».
Qualche tempo fa, L’Eco di Bergamo aveva pubblicato un’intervista al neuroscienziato tedesco Niels Birbaumer: egli spiegava che i malati con gravi impedimenti motori e le persone sane vivono spesso in “mondi diversi”, in cui vigono differenti criteri di valore; capita addirittura che dei soggetti locked-in, completamente paralizzati, esprimano comunque una valutazione positiva sulla loro qualità di vita.
«La sindrome locked-in è un caso estremo di una situazione che peraltro si riscontra anche in circostanze più ordinarie: quando si vive una malattia in prima persona, se ne dà una valutazione molto diversa rispetto a quando si è in buona salute. Questo ci suggerisce che occorre procedere con cautela quando si fa un esercizio di immaginazione per proiettarsi in modo ipotetico in una condizione patologica. Da qui l’importanza che eventuali “dichiarazioni anticipate di trattamento” possano essere riformulate (o almeno riconsiderate) quando si è già nell’esperienza della malattia».
A livello sociale, la ricerca di soluzioni giuridiche nette, basate su “protocolli”, non corrisponde anche a un diffuso bisogno di rassicurazione? È difficile accettare l’idea che per alcune questioni relative al «fine vita» possano anche non esserci risposte univoche.
«Le decisioni che riguardano la fine della vita sono molto difficili non solo per la complessità degli aspetti clinici, ma anche per quanto è in gioco. Non sono rare le circostanze in cui, pur essendo chiaro che ci si trova davanti a un caso di “accanimento terapeutico”, cioè di cure mediche sproporzionate, la scelta di interromperle risulta tuttavia molto onerosa e accompagnata da un forte senso di colpa. Quindi avere qualche indicazione su come procedere, sulle persone a cui riferirsi e con cui confrontarsi, può essere di grande aiuto. Ma anche una volta definiti gli argini entro cui muoversi, nessuna indicazione potrà mai eliminare l’esigenza e la fatica del discernimento nei singoli casi».