Torture, ustioni, violenze: sono i segni dei “viaggi della speranza”. L’infermiera Monica racconta: i richiedenti asilo, feriti nel corpo e nell’anima

Le immagini degli sbarchi dei richiedenti asilo sfilano sotto i nostri occhi quasi quotidianamente. Persone scappate dalla guerra, da situazioni di povertà estreme, da situazioni politiche complicate o da Paesi in cui non possono dichiarare apertamente i loro orientamenti religiosi o sessuali. Persone che portano sui loro corpi i segni di questo difficile “viaggio della speranza”. Lo sa bene Monica Mazzocchi, infermiera professionale, che da febbraio 2016 si occupa di assistenza infermieristica presso i centri di accoglienza della Bergamasca. Monica, libera professionista, collabora con la Cooperativa Servizio alla Persona (Csap), che lavora in supporto all’associazione Diakonia di Caritas Diocesana Bergamasca e alla Cooperativa Ruah, che gestiscono diversi centri di accoglienza sul nostro territorio. “L’esigenza è nata dal fatto che la maggior parte di questi ragazzi, appena arrivati – spiega Monica – presenta una serie di problematiche importanti. La funzione infermieristica serve per fare uno screening iniziale, evitando in questo modo inutili intasamenti al pronto soccorso, per rendersi conto delle urgenze reali”. La prima tappa dei richiedenti asilo è l’Hub di Urgnano, di cui Monica è infermiera referente, aperto da circa otto mesi, dove rimangono per massimo una quindicina di giorni: lì vengono visitati e vaccinati e mandati poi nei vari centri di accoglienza. Monica si occupa delle visite ai richiedenti asilo delle strutture del Gleno a Bergamo (305 ospiti), Botta di Sedrina (185 ospiti) e Ponteranica (60 ospiti), rimanendo comunque reperibile 24 ore su 24 per le emergenze, anche attraverso un gruppo WhatsApp. Davanti agli occhi di Monica e delle altre due colleghe, che lavorano in altri centri del territorio, nelle piccole infermerie arrivano a farsi visitare giovani che presentano diverse sintomatologie, sia fisiche che legate allo stress da trauma: “Hanno dovuto affrontare dei viaggi molto impegnativi, subendo spesso delle torture fisiche durante il passaggio in Libia. In genere arrivano disidratati, con ustioni da idrocarburi, infezioni alla pelle. Il contatto fisico è importante, bisogna tranquilizzarli. Do loro la mano, mi presento, cerco di scherzare quando possibile. Esperienze forti e toccanti, Monica si commuove nel raccontarle: “Un ragazzo presentava delle piaghe trasversali sia sulla schiena che sul dorso: erano i segni delle frustate dei soldati libici. Un altro ragazzo soffre di rabdomiolisi: per tre settimane è stato costretto a stare rannicchiato in un cassone, uno spazio ristretto in cui gli davano cibo, acqua, e in cui doveva espletare i suoi bisogni e dormire. Un altro giovane aveva un’ustione da idrocarburi di terzo grado che andava dalle dita dei piedi fin sopra il ginocchio”. Anche le donne presentano segni di violenza fisica: “Mi ricorderò sempre di questa ragazza, incinta, che non era riuscita a pagare i soldati libici. Questi allora le avevano preso le scarpe e l’avevano costretta a camminare a piedi nudi su un asse di legno da cui fuoriuscivano diverse schegge: è arrivata da noi con febbre alta e piedi dermatosi, mi ci sono volute due ore per togliere tutte le schegge e poter poi iniziare la profilassi antibiotica. O ancora, un’altra ragazza a cui avevano conficcato dei chiodi nelle caviglie e nel gluteo”. Non solo ferite corporali, ma anche ferite nell’anima: “Hanno visto i compagni morire, o sono scappati loro stessi da una morte certa. Un ragazzino, originario della Costa d’Avorio, spiegava di esser scappato da una situazione di estrema povertà, dove per una mucca avevano ucciso i suoi genitori e suoi fratello: il prossimo sarebbe stato lui. Per le sintomatologie più pesanti, vengono indirizzati, se necessario, al Centro etnoclinico Forme della Cooperativa Ruah”. Oltre alle visite di screening, Monica sottolinea l’importanza del fare educazione sanitaria: “Alcune patologie, che per noi possono essere banali come un semplice raffreddore, vengono vissute quasi come una tragedia, e gli ospiti vorrebbero assumere subito diverse medicine per fare passare il tutto. Cerchiamo di spiegare quando è davvero necessario assumere i farmaci”. Capita anche che gli ospiti, nel rievocare il loro vissuto per presentare la domanda di asilo alla Commissione Territoriale, rivivano delle situazioni psicologiche molto pesanti che spesso si ripercuotono sul fisico attraverso cefalea o mal di stomaco: “Ho imparato a distinguerli, a volte hanno solo bisogno di parlare, di tirar fuori le loro emozioni. Alcuni disturbi passano con un placebo”. La sua esperienza Monica l’ha portata anche al liceo del figlio: “All’inizio gli studenti dicevano che non era giusto, tutti hanno uno smartphone, vanno in giro ben vestiti. Ma quando ho fatto vedere le foto delle ferite degli ospiti, raccontando le loro storie, la loro reazione è cambiata completamente. Alcuni mi hanno chiesto se una volta posso portare alcuni ospiti a casa per una merenda per poterli conoscere”. A sostenerla nel suo lavoro anche il marito, medico, e diversi amici professionisti in vari ambiti (fisioterapisti, dentisti, parrucchiera) che le danno una mano gratuitamente. Monica, che per fare questo lavoro ha lasciato l’ambulatorio di Medicina dello sport, non ha nessun rimpianto: “E’ una gratificazione difficile da descrivere a parole, ma è l’esperienza più bella della mia vita: la rifarei mille volte”. Le sofferenze e le situazioni critiche che ha visto vanno di pari passo con l’affetto dimostrato dagli ospiti dei centri di accoglienza: “Cerco di creare un clima confidenziale, sempre nel rispetto. Insegno loro anche il dialetto bergamasco, una sorta di gioco per sdrammatizzare un po’. Come con un ragazzo originario del Mali, che un giorno aveva la febbre: gli ho insegnato a dire “Me gho la fevra”. Ora quando mi vede mi chiama: “Nurse! Me inco gho mia la fevra!”. O ancora una ragazza che aveva avuto un parto difficile, con un neonato di venti giorni. Ci siamo occupate a turno del suo piccolo e ora, a distanza di dieci mesi, quando mi incontra mi abbraccia e mi dice che sono come una seconda mamma per lei”.