L’estate del digital detox: basta smartphone, internet e app, ecco il mondo “senza filtri”

35.000 email, 120.000 messaggi, 360.000 pagine visitate, 1.460 ore di conversazione telefonica, oltre 3.000 contatti in rubrica, 70.000 like su facebook. Ho 120.000 cuoricini su instagram, e oltre ventimila contatti su linkedin, un profilo twitter aggiornato costantemente, 120 bacheche su Pinterest, e poi whatsapp, telegram, viber.

Arriva l’estate e più che un uomo mi sento un automa programmato in codice binario, con scanner laser al posto degli occhi, polsi e cervicale deformati dalla posizione scimmiesca sopra la tastiera.

Programmo la lavatrice con lo smartphone, il frigorifero prepara la lista della spesa da solo e me la invia su whatsapp, il capo mi chiede una modifica di un powerpoint sul cloud, Groupon mi propone l’acquisto di un corso di mental coaching intensivo, mia moglie mi manda la foto di nostra figlia mentre fa il bagnetto.

È luglio, fa caldo, gli occhi si chiudono da soli. Sono sulla homepage di Repubblica senza sapere perché. Cosa dovevo fare? Mi sento come il protagonista di Memento, che perde la memoria a breve termine. Ricorda solo quello che è avvenuto prima dell’incidente così come io ricordo solo quello che è avvenuto prima dell’iphone, della smart tv, della rete wi-fi, dello smart working, di windows vista.

Il capo mi chiama, apre la presentazione che gli ho inviato. C’è la foto di mia figlia mentre fa il bagnetto. Nuda, due gambette a salsiccia. Piange come l’avessero immersa nell’acido muriatico. Nella didascalia c’è la lista della spesa del mio frigorifero, che ho chiamato Cetriolone perché quando lo apri sgocciola. In definitiva la scritta recita: “Cetriolone cerca piselli, zucchine, meloni”. Non il massimo per la foto di una bambina nuda. Ancora meno se la presentazione è per una scuola privata dell’infanzia a cui abbiamo proposto un piano di inbound marketing.

Si chiama digital detox, disintossicazione digitale.

Così mi ha detto il capo dandomi il volantino di un hotel dove mi sta obbligando a consumare le ferie. Niente cellulari, niente computer, niente internet, niente televisione, niente schermi, niente telefoni. In pratica niente di quello che faccio per diciotto delle mie ventiquattro ore quotidiane.

Prenoto e il giorno dopo sono già lì, su una collinetta verde stile Mulino Bianco ma senza Banderas. Al primo sguardo è un posto incantevole, al secondo è desolato, al terzo è noiosissimo. Evito di dare il quarto sguardo perché alla reception mi hanno requisito le chiavi dell’auto e non potrei andarmene neanche volendo. Tipo sequestro, ma legalizzato.

Faccio una passeggiata per distrarmi dal nulla. C’è un vigneto pieno di insetti, un uliveto, un’altalena all’ombra di una pianta enorme che non so cos’è. Ho un’applicazione sul telefono che dalla fotografia ti dice il nome, la specie e la diffusione di una pianta.

Mi siedo e dondolo per qualche minuto guardando l’orizzonte. Tira un’aria incantevole, mi accarezza i capelli e mi fa venire sonno. In lontananza il sole si abbassa e il cielo diventa rosso. Sarebbe bellissimo da mettere su instagram. #tramonto #altalena #ariasana #chepalle.

Torno in hotel, dove il ritrovato tecnologico più avanzato è un mazzo di carte di scala quaranta che occhio e croce risale agli anni settanta. Mi siedo su una poltroncina e dormo. Sogno schermi touchscreen, palmari, telefoni avanzati, sogno di ricevere la chiamata del sistema operativo preoccupato per la mia salute. Mi sveglio di soprassalto spaventando il receptionist che fa il turno di notte. Chissà cosa sta succedendo nel mondo, quale guerra si è scatenata. Chissà se mi ha cercato qualcuno, se nelle mail c’è un’urgenza di lavoro.

-Posso usare il telefono?-

Il receptionist mi guarda storto. Conosce quel tipo di richiesta.

-Domani. Ora la accompagno in camera, così può continuare a dormire-.

-È solo per sapere come sta la mia famiglia-

-Sua moglie e sua figlia stanno bene. Le abbiamo sentite noi nel pomeriggio, non deve preoccuparsi. Le posso assicurare che tra qualche giorno si sentirà meglio-.

Meglio un corno. Vado a dormire e c’è un bambino che cammina sul soffitto della mia stanza, come in quella scena di Trainspotting quando Ewan McGregor viene chiuso in camera dai genitori per disintossicarsi dall’eroina.

Il giorno seguente mi accompagnano sulle rive di un laghetto per un picnic, e mi danno una canna da pesca con cui dovrei prendere qualcosa di diverso dalle alghe, ma non ci riesco. Anche per pescare ho un’applicazione sul telefono. Vorrei rompere il finestrino dell’auto per accendere la radio, chiudermi nell’ufficio del personale per usare internet. Vorrei chiamare casa, piangere e dirgli di venirmi a prendere.

Vorrei telefonare al capo e dirgli che l’idea di mandarmi qui è stata una schifezza.

Facciamo un giro in barca e mangiamo spiedini di frutta fresca che si abbinerebbero perfettamente alla mia bacheca pinterest Ricette colorate.

Il bambino mi aspetta ancora in stanza, gironzola minaccioso e sulla fronte ha un pulsante colorato che si accende e si spegne, come quello dei banner di Adwords. Scopri di più, c’è scritto.

Dal terzo giorno sento qualcosa di diverso. Non è noia, non è sonno. È più un disagio che viene dallo stomaco, un senso di nausea. Hanno organizzato una competizione sportiva. Un po’ di atletica, un po’ di calcio e un po’ di pallavolo. Al termine delle gare stiro le spalle e sento uno scrocchio che non mi fa male. Sento piuttosto di avere i polmoni più larghi di prima. E la cervicale non mi duole. Mi sento più alto.

Passano altri due giorni e non me ne accorgo. Partecipo a un torneo di tiro all’arco, vinco quello di bocce e di scala quaranta. Aiuto il cuoco ad affettare le carote e un mattino mi alzo alle quattro per impastare il pane. Non lo farò mai più, odio svegliarmi presto, ma mi sono divertito. Immagino tutti i panettieri d’Italia che mi dicono fallo per un mese, voglio vedere se ti diverte ancora. Immagino i loro insulti su facebook, i loro tweet astiosi.

Un giorno prima della fine del soggiorno lascio un messaggio alla reception e parto. Vado in stazione, a piedi. Prendo un treno per Bologna, poi da Bologna a Verona. Verona Brescia, Brescia Bergamo. Ci metto sette ore, in cui le uniche parole che pronuncio sono alla signora della biglietteria. Per Bergamo via Verona e Brescia, le chiedo. Poi è silenzio. Il vagone è pieno di macchine che digitano sui telefoni. Milioni di byte per comunicare e non si è capaci di dire buongiorno al vicino di posto.

Il capo mi chiama, incessantemente, da circa due giorni. Sono certo mi abbia contattato anche per email, su skype, via chat, al cellulare, sui social network e con ogni altro mezzo informatico esistente.

Guardo mia figlia seduta sulle gambe di mia moglie, mentre dondola sull’altalena sotto quell’enorme pianta che ho scoperto essere un tiglio, non dall’applicazione ma dal giardiniere. Un tipo simpatico, ha un figlio della mia età che lavora in Germania per una società di server.

Sei sicuro che non devi rientrare a lavoro? Mi chiede mia moglie, abituata come me a pensare che a partire dal 2008 uno stipendio sia diventato un privilegio per cui sacrificare la propria esistenza fino all’ultima briciola, all’idea inculcata che nel mondo del lavoro l’unica alternativa possibile al presente sia il fallimento.

Penso a mia madre, a quando da bambino mi svegliava per andare a scuola accendendo la luce della cameretta. Penso al sonno che avevo, alla difficoltà di aprire gli occhi, alla incontrastabile voglia di spegnere e restare sotto le coperte.

Ancora un minuto, le rispondo io come per mille volte risposi a mia madre.