Dottori vs Sciamani. La sanità in Bolivia, storie e leggende: “Qui entri all’ospedale con un graffio alla mano e ne esci con il braccio amputato”

“Qui entri all’ospedale con un graffio alla mano e ne esci con il braccio amputato”. Non è raro sentire battute di questo tipo girando per le strade della frenetica e caotica La Paz. Si tratta di ironia, è vero, ma spesso nasconde tra le righe una verità neanche troppo velata: la sanità in Bolivia è un capitolo nero con il quale ognuno spera di non avere mai nulla a che fare. Costosissima (perché non è garantita dallo Stato), inefficiente, a tratti imbarazzante. Sono numerosissimi i racconti che avvalorano questa tesi e la cosa più drammatica è che i boliviani sembrano essersi rassegnati a questa assurda situazione.

È dello scorso gennaio un articolo apparso sulla versione online de La Razón che denuncia, senza mezzi termini, le inefficienze del sistema sanitario boliviano, portando ad esempio una “normale” avventura tra ospedali e cliniche locali. Una famiglia si trova a dover portare d’urgenza un parente in ospedale; la diagnosi è “trombosi venosa profonda”. Dopo ore di attesa arriva la notizia che i medici specialisti sono in ferie e sarebbero rientrati 3 giorni più tardi; fortunatamente il signore è un anziano, dunque le cure (quali?) sono gratuite. L’unica soluzione è rivolgersi ad una clinica privata i cui costi, già spropositati nelle strutture pubbliche, si moltiplicano considerevolmente. L’autrice dell’articolo commenta indignata: “Davanti a questa situazione uno si domanda: e tutta quella gente che non ha a disposizione risorse economiche deve morire?”. La risposta è sì, in Bolivia le persone che non possono permettersi le cure vengono lasciate morire. È triste, è ingiusto, è inumano ma è la realtà dei fatti alla quale le persone si sono tristemente rassegnate. Il trattamento ospedaliero – anche quello pubblico – ha costi spropositati in relazione allo stipendio medio boliviano che attualmente si aggira attorno ai 290 dollari (o 250 euro). Una situazione insostenibile per un Paese che, è bene ricordarlo, è ancora uno dei più poveri dell’America Latina: secondo dati del 2016 il 15,8% della popolazione vive con meno di 3,10 dollari al giorno; il 9,1% con meno di 1,90 dollari. Recentemente, come progetto Kantutitas, abbiamo aiutato il padre di un nostro figlioccio a sostenere la spesa di una ordinaria operazione al piede che è venuta a costare in totale circa 1800 dollari. Inutile dire che l’intervento è stato posticipato di un giorno dal momento che il personale era impegnato a festeggiare l’anno nuovo aymara.

Storie drammatiche che sono all’ordine del giorno ma alle quali si fatica a farci l’abitudine. Famiglie costrette a lasciar morire i propri figli perché il costo richiesto per le cure è troppo alto; o, peggio, famiglie che, dopo aver racimolato il giusto quantitativo di denaro, vedono morire il proprio figlio per una diagnosi sbagliata o per grossolani errori da parte del personale sanitario. Sì perché il sistema sanitario boliviano non solo è costosissimo, ma è anche tremendamente inadeguato. Sarà un caso che lo stesso presidente Evo Morales Ayma nel mese di maggio andò fino a Cuba per sottoporsi ad un’operazione alla gola? O che il ministro dell’economia si rivolse direttamente a dottori brasiliani per farsi curare da una infermità ancora non dichiarata? Anche qui sono numerosissimi i casi che smascherano l’inadeguatezza dei dottori e delle strutture ospedaliere boliviane. Per non scadere nel tragico, possiamo citare un caso piuttosto divertente accaduto qualche anno fa ad un nostro parrocchiano che, nel bel mezzo di un’operazione all’appendicite, si è ritrovato schiacciato dalla lampada scialitica (quella utilizzata in sala operatoria) con conseguente via vai di elettricisti, tecnici e dottori in preda al panico. Un po’ meno spiritosa la risposta che ha ricevuto una ragazzina di una nostra comunità quando, un mese fa, presentandosi all’ospedale con forti dolori alle mani e ai piedi si è dovuta rassegnare alla sentenza “Deve attendere perché i dottori che la possono aiutare torneranno tra 3 settimane”.

Qualche dato a suffragare questa non invidiabile situazione: Bolivia risulta essere – in quanto a strutture e a fondi investiti dallo Stato – uno degli ultimi Paesi del Sud America sotto la voce sanità. Malgrado i recenti investimenti del governo Morales abbiano portato alla costruzione di 2700 consultori e 47 ospedali, secondo i dati del Banco Mundial lo stato boliviano è quello che investe meno risorse nella salute dei suoi cittadini rispetto a tutti gli altri paesi sud americani; è infatti ultimo con un totale di circa 209 dollari per persona – Cuba ne investe 817 e l’Italia 3.258 per intenderci. Il periodico Pagina Siete in un recente articolo denuncia anche una scarsa capacità di posti letto: si parla di 12.000 unità per una popolazione stimata di 11 milioni di persone (1,1 letto per mille abitanti).

Complice questa sfiducia generale nei confronti delle strutture ospedaliere e della scienza farmacologica in senso lato, molti boliviani legati alle tradizioni ancestrali continuano a rivolgersi con fede e devozione agli Yatiri o curanderos, quelli che dalle nostre parti chiameremmo sciamani. Il termine “yatiri” deriva dall’aymara e si può tradurre in “colui-che-conosce”; sono persone che vivono normalmente la vita comunitaria, con un lavoro e una famiglia. Hanno però la capacità di entrare in contatto con los espíritus del mas allá (“gli spiriti dell’aldilà), di leggere il futuro e, naturalmente, di guarire. Nelle città si trovano comunemente in piccoli baracchini lungo la strada e il loro servizio ormai si limita alla previsione del futuro attraverso la lettura delle sacre foglie di coca. Diversamente nelle comunità del campo le prestazioni degli yatiri si estendono ai riti più svariati come le wilanchas (sacrifici propiziatori di animali), offerte alla PachaMama e, come detto, anche alla guarigione. Come? Certamente con quella che viene definita medicina alternativa (erbe, foglie di coca, feti di lama, eccetera) ma soprattutto ampliando il concetto di guarigione anche all’ajayu, l’anima della persona che, per chi ci crede, è in costante relazione con la natura, con gli antenati e con gli altri membri della comunità. Il curandero infatti non va alla ricerca della causa scientifica del male ma, piuttosto, prova a ristabilire un ordine che si è rotto a causa di agenti esterni. Un esempio: capita che vengano presentate allo yatiri persone con forti e persistenti dolori all’addome; una delle risposte più comuni che i pazienti ricevono è questa: “Certamente è opera del KariKari”. Il KariKari, secondo la credenza, è uno spirito maligno, comandato da una persona, che colpisce le sue vittime per rubargli il grasso corporeo. La leggenda nasce intorno al XV secolo quando arrivarono in America Latina i primi monaci francescani e gesuiti. Le popolazioni indigene, spaventate da queste figure estranee, cominciarono ad attribuirgli la causa dei loro malanni, etichettandoli appunto con il nome di KariKari. Secondo gli indios, i religiosi rubavano il grasso delle persone per produrre olio santo. Questa credenza verso gli uomini consacrati persiste ancora oggi, tanto che alcuni anni fa padre Antonio, mentre camminava per le strade di Viloco, sentì un passante rivolgersi a lui dicendo: “KariKari de mierda” (non c’è bisogno di traduzione! ndr). Tuttavia negli ultimi anni – e soprattutto nelle città – la credenza più diffusa è che lo spiritello attacchi le persone che si addormentano sui minibus, le quali, ignare dell’accaduto, rincasano con forti fitte alla pancia.

Tra dottori (un po’ pasticcioni) e sciamani, tra scienza e superstizione, tra diagnosi e profezie, tra medicine e spiriti. Come in tante altre circostanze, il popolo boliviano sembra essere nel bel mezzo di una interminabile partita in cui si sfidano progresso e tradizione. L’impressione è che nessuno dei due ne uscirà vincitore.