Ken Follett: «Tre anni per diventare ateo, tutto il resto della vita per ritrovare la mia anima»

«Mi torna in mente la famosa frase di Picasso: “Ho impiegato quattro anni per imparare a dipingere come Raffaello e una vita intera per imparare a dipingere come un bambino”. A me sono bastati tre anni per diventare ateo, ma ho speso il resto della vita per ritrovare, grazie a un improbabile girotondo, una qualche forma di spiritualità». Il gallese Ken Follett è tra gli scrittori viventi con all’attivo il maggior numero di copie vendute (150 milioni tendenti a infinito, secondo i comunicati stampa dei diversi editori). Intendiamoci: anche noi saremmo pronti a scommettere che tra un secolo, nelle università, non si terranno corsi monografici su Il martello dell’Eden o Il terzo gemello; va però riconosciuto che un libro come La cruna dell’ago ha contribuito a rinnovare il genere della spy story, e che la trilogia composta da I pilastri della terra, Mondo senza fine e La colonna di fuoco – quest’ultimo tomo sarà pubblicato a settembre da Mondadori –  rappresenta un caso interessante di «volgarizzazione» del medioevo, con una puntata in età elisabettiana.

Il virgolettato in apertura è preso tuttavia non da un romanzo, ma da un testo autobiografico che Follett aveva scritto lo scorso anno per la rivista inglese di letteratura e poesia Granta. Recentemente queste pagine sono state ripubblicate in lingua originale e in italiano dalle Edizioni Dehoniane Bologna con il titolo Cattiva fede / Bad Faith (pp. 80, € 7,50, disponibile anche in formato ebook); la traduzione e un saggio introduttivo sono del giornalista di Avvenire Alessandro Zaccuri.

La «cattiva fede» in questione è quella in cui Kenneth Martin Follett, nato a Cardiff nel 1949, era cresciuto fino all’adolescenza: la sua famiglia d’origine apparteneva infatti ai Plymouth Brethren, un movimento religioso nato nella prima metà dell’Ottocento per scissione dalla Chiesa anglicana. Presso i «Fratelli di Plymouth», un approccio letteralista alla Bibbia si unisce a un’interpretazione che più radicale non si può del monito paolino a «non conformarsi alla mentalità di questo secolo»: «Da bambino – racconta Follett – non avevo il permesso di andare al cinema. Ce n’era uno in Cowbridge Road, a Cardiff, non lontano da casa mia, e quasi tutti i ragazzi che conoscevo ci passavano il sabato mattina a guardare film senza pretese, serie con i cowboy e i razzi spaziali, Robin Hood e il cane Lassie. Oggi sono colpito da un lampo d’immedesimazione quando, in Proust, leggo del giovane narratore che scruta con desiderio i manifesti teatrali esposti sulle colonnine pubblicitarie di Parigi». Qualunque cosa potesse essere associata alla parola «piacere» era esclusa dall’orizzonte di vita dei Follett e degli altri membri della Fratellanza: «Non si frequentavano teatri, concerti o eventi sportivi. Ricordo ancora di quando mi fu spiegato che era più che giusto andare alla fiera dell’auto per acquistare un pullmino per l’evangelizzazione, ma sarebbe stato sbagliato passare una giornata là dentro solo per ammirare le macchine, perché in quel caso non sarebbe stato altro che “piacere”».

Come non bastasse, la storia dei Fratelli di Plymouth già dal 1848 era stata caratterizzata da divisioni settarie e rapporti effettivamente molto poco fraterni tra Open ed Exclusive Brethren: le due fazioni, pressoché indistinguibili sul piano dottrinale, si differenziano perché la seconda impone di non condividere nemmeno i pasti con i membri di altre denominazioni.

Per il giovane Ken Follett, gli studi scolastici e poi quelli universitari di filosofia si svolsero all’insegna di una protesta rabbiosa contro tutto ciò che precedentemente gli era stato inculcato: «Al momento della laurea ero diventato ateo. Un ateo arrabbiato, anzi. (…) Più che altro, mi faceva infuriare l’aver prestato fede alla robaccia in cui ero stato cresciuto. Nulla è più esasperante della rivelazione della propria passata stupidità».

Più sorprendente è che in età matura egli abbia ripreso a guardare al cristianesimo con rispetto e interesse. Nel 1997, la sua seconda moglie Barbara Hubbard era stata eletta deputato nelle file del Labour Party e da quella data lo scrittore iniziò a prender parte alla celebrazioni religiose ufficiali, come ci si aspetta del coniuge di un parlamentare britannico. In seguito, però, continuò a farlo anche quando non era obbligato. «Adesso – spiega – mi considero un ateo non praticante. Continuo a non credere in Dio e non faccio mai la comunione. Ma andare in chiesa mi piace. (…) Perché ci vado? L’architettura, la musica, le parole della Bibbia di re Giacomo, e il senso di condividere qualcosa con chi mi sta accanto: tutto questo conta. Quel che ne deriva, per me, è un sentimento di pace spirituale. Andare in chiesa consola la mia anima». All’esperienza personale si aggiungono delle considerazioni di ordine culturale: come osserva Alessandro Zaccuri, nella trilogia inaugurata nel 1989 con I pilastri della terra «la storia del cristianesimo in Inghilterra fra medioevo e inizio dell’età moderna rappresenta molto più di un fondale. C’è la denuncia dello strapotere ecclesiastico, ma anche la speranza evangelica, impersonata dal personaggio di Philip, il priore che si batte per la ricostruzione dell’immaginaria cattedrale dell’altrettanto immaginaria Kingsbridge». La conferma viene dallo stesso Follett: «Le grandi cattedrali del medioevo europeo sono, a mio avviso, gli edifici più affascinanti in assoluto. Ho preso l’abitudine di visitarle, di studiarle. Ben presto sono stato colpito dalle domande che la maggior parte delle persone si pone davanti a questi edifici: perché questa costruzione si trova qui? A quale desiderio della gente del medioevo rispondeva? E il desiderio era davvero forte. Una cattedrale costava una fortuna (un buon paragone moderno è rappresentato da un lancio sulla Luna), eppure gli uomini e le donne che la innalzavano vivevano in capanne di legno, senza neppure un camino, e dormivano per terra».

Proviamo a svolgere un paio di riflessioni, partendo dall’outing spirituale di Ken Follett. La prima riguarda le condizioni dell’esperienza religiosa nel nostro tempo. Tra i cristiani, c’è chi rimpiange un passato in cui le gerarchie ecclesiastiche praticavano un ferreo «disciplinamento» dei fedeli, regolando minuziosamente le condotte individuali. Che piaccia oppure no, uno dei tratti di fondo dell’epoca presente è invece costituito dal principio del «pluralismo religioso»: come argomentava un grande sociologo da poco scomparso, Peter Ludwig Berger, non è che la gente oggi sia più incline alla miscredenza che alla fede e alla preghiera; la secolarizzazione non è sinonimo di «ateismo» ma comporta che il credere, il non credere o il credere in questo piuttosto che in altro abbiano sempre più il carattere di un’«eresia», nel senso etimologico di una libera scelta individuale (la si ritrova anche presso chi si schiera su posizioni religiose tradizionaliste, dichiaratamente «antimoderne»).

Un secondo punto riguarda l’apprezzamento del «lapsed atheist» Follett per l’arte cristiana e in particolare per la liturgia della Chiesa di Inghilterra. Da un lato, è pure vero che un cristianesimo totalmente deprivato di «qualità estetica» avrebbe poco da dire ai cuori e alle menti degli uomini del XXI secolo. Dall’altro, si potrebbe chiedere un po’ più di coraggio intellettuale e di radicalità a persone colte come Follett, e forse alla stessa predicazione ecclesiale: la bellezza del rito – quando c’è – non dovrebbe valere per se stessa e nemmeno costituire una «pausa felice» nella prosaicità della vita quotidiana. Detto diversamente: i costruttori di cattedrali del medioevo non perseguivano l’ideale dell’art pour l’art; si consideravano invece al servizio di una Parola comunque irriducibile alle aspirazioni e ai sentimenti umani.