Prima dell’avvento dei social network il luogo dove si litigava di più erano le riunioni di condominio. Ora però il vicinato, grazie alla rete, è diventato più ampio, e la gente spesso entra in modo casuale in casa d’altri senza bisogno di chiedere il permesso. La porta è aperta: la libertà è (sembra) massima.
Si ritrovano così gomito a gomito in modo istantaneo persone molto diverse tra loro per formazione, idee e cultura e non sanno nulla l’una dell’altra. Le reazioni più diffuse sono schematiche, quelle indotte dal meccanismo dei social: “mi piace” oppure “non mi piace”, sono d’accordo oppure no. La distanza creata dallo schermo e dalla tastiera allenta i freni inibitori, rende il comportamento molto diverso da quello che si terrebbe in una conversazione dal vivo: saltano tutte le regole, comprese quelle della buona educazione, molti si sentono legittimati a dire tutto quello che gli passa per la testa, senza nemmeno fermarsi per un attimo a pensare.
La tentazione è quella di chiudersi nel recinto dei propri simili, di aggregarsi in quelle che Walter Quattrociocchi, dell’istituto Imt Alti studi di Lucca, definisce vere e proprie “tribù”. Gruppi omogenei che rafforzano le proprie teorie nei forum e nei social network, prendendo per buoni soltanto i contenuti che corrispondono a ciò in cui credono. Una deriva pericolosa, che spazia dagli argomenti più diversi, dalla salute (vedi l’esempio dei vaccini) alla politica (i casi più eclatanti sono quelli della Brexit e dell’elezione di Trump, ma in generale tutti i partiti politici tendono ad aggregarsi in rete in “tribù”).
Il confronto tra soggetti che hanno opinioni diverse degenera facilmente in aggressività, violenza, offese e insulti. Le informazioni (di qualunque genere) vengono spesso accettate senza controllo e senza mediazione. I testi vengono rilanciati e condivisi in un tempo brevissimo (pochi secondi) non per il valore del contenuto intrinseco (ai post e agli articoli viene data solo un’occhiata superficiale) ma per l’emozione che è capace di suscitare. L’effetto più evidente è una circolazione smisurata di “fake news”, notizie false, che generano conseguenze concrete: influiscono sul sentire comune (vedi in questo periodo, per esempio, il risentimento verso gli immigrati), producono e alimentano le famose “teorie dei complotti”. Sono fenomeni inquietanti, che dovrebbero spingere tutti a interrogarsi: soggetti singoli, famiglie, esperti e professionisti della comunicazione. Come è possibile “stare in rete felicemente”, educare a un comportamento corretto, evitare di ritirarsi quando l’aria diventa irrespirabile, disinnescare i conflitti? Sono domande difficili ma cruciali, che meritano un approfondimento serio anche nelle comunità parrocchiali e negli oratori. Non basta avere uno smartphone in tasca, bisogna anche formarsi le competenze – educative, culturali e umane – per usarlo bene.
E’ un tema che ci sta molto a cuore, sul quale sentiamo di avere anche noi molto da imparare. Apriamo la riflessione (senza esaurirla) con il dossier di questa settimana.