La bambina di Londra affidata a famiglie musulmane, l’estremismo religioso e le nostre paure

Ha fatto molto discutere in questi ultimi giorni la notizia della bambina di cinque anni di Tower Hamlets, quartiere di Londra ad alta presenza straniera, affidata temporaneamente a due famiglie musulmane particolarmente osservanti. Il servizio del Times ha riportato inizialmente che alla bambina sia stato impedito di indossare la catenina con la croce e di mangiare carne di maiale, che le madri affidatarie usassero il niqab (il velo integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi) e che in casa si parlasse soltanto arabo, al punto da creare nella bambina evidenti difficoltà e disagi. Il caso, finito sotto i riflettori mediatici di tutta Europa, si è rivelato più articolato e delicato di quanto una prima ricostruzione avesse lasciato supporre: a seguito delle polemiche, infatti, il magistrato Khatun Sapnara ha disposto che la piccola venisse affidata alle cure della nonna, anch’essa musulmana.

La questione ha suscitato incredibili discussioni e dibattiti anche in Italia, tra le solite e ormai immancabili tifoserie pro e contro: da un lato quelli che “oddio, la bambina bianca affidata agli orchi musulmani” e dall’altro quelli che “cosa c’è di male se la bambina impara l’arabo e non mangia la carbonara”.

Nel mezzo è mancata, forse, l’obiettività di ricominciare a considerare le notizie non solo secondo le proprie paure (sia la paura-invasione che la paura-razzismo-ad-ogni-costo) o le proprie speranze (speranza che sia davvero successo qualcosa di così aberrante per poter giustificare l’odio, oppure speranza che sia una bufala per non ammettere che ci possono essere anche problemi significativi di convivenza tra culture), ma anche e soprattutto secondo ciò che raccontano e il contesto in cui si calano, imprescindibile per poter dare una valutazione oggettiva.

E se da un lato è giusto e sacrosanto verificare le notizie (soprattutto quando trattano temi delicati e situazioni personali ancora più delicate come l’affido, in un paese peraltro diverso dal nostro, con leggi e consuetudini diverse e un background di riferimento molto diverso), dall’altro è altrettanto fondamentale non permettere al dubbio-bufala di minare alle basi qualsiasi ragionamento si possa imbastire sul tema della convivenza religiosa e culturale e dei problemi che essa può porre. E ne può porre eccome: sottolineare la cosa non significa essere razzisti o islamofobi, significa rigettare la retorica zuccherosa del volemose-tutti-bene a fronte di casi che ci interrogano sul significato reale del rispetto e dell’accoglienza della diversità da ambo le parti. Ciò che ha sollevato sconcerto non è la carbonara che la bambina non può più mangiare (ammesso e non concesso che questo dettaglio di folklore sia reale), ma è il dubbio – lecito – se una fede vissuta in maniera rigida ed estremista possa essere l’ambiente adatto per una bambina in affido, con tutti i traumi che probabilmente già si porta appresso. La domanda vale per qualsiasi fede e religione, e vale e deve valere anche per l’Islam. Il rischio è che per paura di incorrere negli strali del popolo della rete ci si autocensuri dinanzi alla verità.