Le gondole e i barconi: al Festival di Venezia un film sul dolore dei profughi

Le “pagine dello spettacolo” non sono mai le pagine del nulla. Offrono sempre racconti che, a volte inaspettatamente, suscitano domande sul senso o sul non-senso di un’opera d’arte cinematografica, musicale, teatrale.
In questi giorni è stato il 74° Festival del cinema di Venezia a farla da padrone con l’accompagnamento pubblicitario di una gondola che scivola sotto il ponte verso un mare calmo, forse troppo.
Il “red carpet” ha assistito al passaggio di attori, attrici e registi che spesso hanno comunicato con il linguaggio filmico le attese, le angosce, le speranze, i sogni, la storia, le sofferenze, le gioie, la stupidità e la cattiveria dell’uomo.
Alcune opere hanno lasciato nella coscienza tracce indelebili.
Tra queste c’è un cortometraggio, non l’unico del genere, presentato al 74° Festival che ha come protagonisti Youssef, Lamine, Seedy, Mohamed, Sarda con il gruppo di lavoro ConMoi.
Per il Moi (il vecchio Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso) diventato Villaggio per gli atleti delle Olimpiadi 2006 di Torino, è oggi in fase finale la decisione di sgombero di 400 persone.
Il loro futuro (che anche la diocesi di Torino ha a cuore) diventa un interrogativo nel film-documentario “Joy” di Daniele Gaglianone proposto a Venezia.
Scrive il regista – dopo aver ricordato che le palazzine ex Moi “loro le hanno occupate dopo 5 o 6 anni e in un certo senso hanno riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni” – che “Youssef tutte le mattine si alza alle 5 per andare a fare il saldatore a Pinerolo… Lamine, che viene da un mondo lontanissimo, dei nomadi del deserto, qui sta cercando di costruirsi una vita attraverso lo studio, un’idea di futuro, che è anche il futuro del Paese che la ospita”.
Daniele Gaglianone, per raccontarla, non è entrato nella vita dell’ex Moi come “fanno i giornalisti d’assalto senza trovare un accordo con le persone che ci vivono” così che queste “si sentono aggredite”.
Un particolare da non dimenticare quando in video appaiono le immagini di bruschi respingimenti delle telecamere da parte degli immigrati.
Non si tratta di giustificare un gesto ma di capirlo, perché non si ripeta.
Il regista contesta quel giornalismo che Ryszard Kapuscinski definisce “cinico” e mette in guardia quell’opinione pubblica che, rinunciando alla fatica della critica, è pronta non a caso a considerarlo attendibile, se non esemplare.
Non ci sono più barconi che affondano, c’è una gondola leggera che di notte scivola sull’acqua.
Ci sono meno sbarchi sulle coste italiane, e questo è bene. Ma il silenzio di una gondola può zittire la coscienza di fronte a una tragedia che continua altrove? La domanda, al Festival di Venezia, viene anche da “Joy”.