Pablo d’Ors racconta Charles de Foucauld: «Anche ai cristiani di oggi serve un po’ di deserto»

«Anche ai cristiani di oggi serve un po’ di deserto»: ecco perché Pablo d’Ors, prete e scrittore, ha scelto di scrivere un romanzo su Charles de Foucauld, «L’oblio di sé» (Vita e Pensiero): l’ha appena presentato al Festivalletteratura di Mantova, ed è lì che l’abbiamo incontrato. Il suo è una specie di diario, scritto in prima persona, che punta dritto all’anima: «Parlo di come una persona lavora su di sé e compie una crescita spirituale». Un itinerario prezioso per l’uomo di oggi che «attraverso lo schermo dello smartphone si proietta sempre al di fuori di sé, mai all’interno», mentre avrebbe un gran bisogno «di tornare nel deserto, se non fisico, almeno simbolico».

Come ha incontrato Charles de Foucauld?
«Ho incontrato Charles de Foucauld in un momento di grave crisi personale, ed è stato importante perché per me e per il cristianesimo rappresenta l’icona del fallimento. Avrebbe voluto convertire i fedeli musulmani ma non ci è riuscito. Avrebbe voluto dei seguaci ma non ne ha avuto nessuno. Ha scritto regole per gli eremiti e loro non le hanno seguite. Tante cose nella sua vita non hanno funzionato bene, ma è stato un dono che sia andata così. Solo dalla coscienza del dolore, del fallimento, della povertà, dell’alienazione nasce un vero cammino spirituale. Senza riconoscere la propria fragilità e vulnerabilità non si va da nessuna parte. Almeno il cristianesimo si imposta in questi termini, di redenzione, di tirare fuori dal buio e dal fallimento».

Molti hanno scritto su Charles de Foucauld. Qual è il punto di vista che ha scelto?
«Il mio approccio a Foucault è molto esistenziale. Scrivere un libro su un personaggio così non è un’azione innocente, implica una scelta di campo. Non si può scrivere un libro su un santo se nel frattempo tu stesso non tenti di comprenderlo profondamente, di pensare come lui. Non puoi scrivere un romanzo su un assassino senza diventarlo un po’ anche tu. Perciò questa per me è stata una vera e propria avventura spirituale. Mentre lavoravo al romanzo ero in uno stato di preghiera permanente. Quasi tutte le pagine le ho scritte in una cappella, a volte addirittura inginocchiato. È il mio primo romanzo esplicitamente cristiano. Prima il cristianesimo non è venuto fuori nella mia ispirazione letteraria, perché sono convinto che la letteratura non debba essere catechismo. Se si è scrittori per vocazione l’obiettivo non dev’essere quello di trasmettere un messaggio, si scrive perché si sente una chiamata che spinge a farlo. Se sei credente in qualche modo viene fuori, perché è dentro di te. Con “L’oblio di sé” è accaduto questo. Quello che mi ha spinto a scrivere il romanzo è stata proprio la voce di Foucauld che voleva raccontare la sua storia. Anche per questo ho scritto in prima persona. Mi sono messo ad ascoltare ed è venuto fuori questo. Ho cercato di essere un vero canale di trasmissione, come se non fossi io a scrivere il libro, ma che esso nascesse attraverso di me. Quando scrivo in terza persona invece è più forte la componente di costruzione, lavoro in modo diverso».

Il libro segue le tappe di un cammino, con una struttura molto vicina alla drammaturgia teatrale. Da dove nasce questa scelta e come ha individuato la scansione della storia?
«La mia formazione è stata teatrale. Per me, come narratore, la plasticità dell’azione è quasi un’ossessione; vorrei che il lettore potesse sempre vedere che cosa sta capitando. Nel caso di Foucauld la rappresentazione sarebbe una teodrammatica, perché veramente la sua vita è un dramma. A volte la costruzione dei libri è complessa e tortuosa, in questo caso invece avevo un disegno chiaro in mente fin dall’inizio perché questo è un bildungsroman, un romanzo di formazione, parla di come una persona lavora su di sé e compie una crescita spirituale. Penso che siano rarissime nella letteratura le storie di persone come lui che non voleva essere di più degli altri, ma di meno. Non voleva essere popolare ma sconosciuto, non desiderava la fama, preferiva restare anonimo. Questa è la storia che stiamo raccontando, questo mi ha affascinato. Sono in pochi a camminare in questa direzione, Foucauld e qualche altro matto, la sua storia è troppo singolare. Su di lui ci sono molte biografie ma non romanzi. Per scriverne uno ci vuole una grande complicità tra lo scrittore e il protagonista. Io mi sono preso qualche libertà: sugli aneddoti che gli sono capitati nella vita e sulle categorie che quegli aneddoti esprimevano ho innestato alcuni momenti della mia storia personale, e qualcuno che mi conosce bene leggendo mi chiedeva: ma questa è la storia di Charles de Foucauld o la tua? Quando si crea questa simbiosi, tenendo presente che il protagonista è un santo e io sono soltanto una persona normale, la situazione che si crea è molto feconda».

Come è riuscito a conciliare realtà e finzione?
«È stata una sfida e un compito molto delicato, perché chi conosce bene la vita di Foucauld, chiaramente riconosce le parti che non sono accadute. Ma la mia non è una biografia, è fiction. Nonostante questo è capitato in Spagna che qualcuno abbia attinto al mio libro per scriverne un altro, biografico, sempre su Foucauld e abbia quindi inserito anche episodi che non sono veri, spacciandoli per tali. Anche con la storia a mio parere accade la stessa cosa, e si arriva a un punto in cui l’interpretazione diventa più vera di ciò che è accaduto sul serio. Il mio racconto non dice esattamente quello che Foucauld ha vissuto, ma penso che se lo leggesse ci si potrebbe riconoscere. Noi cittadini del XXI secolo non prendiamo sul serio l’immaginazione. Pensiamo di arrivare più vicini alla realtà con l’interpretazione razionale. Abbiamo sopravvalutato la ragione e sottovalutato la fantasia. Con essa si può invece rendere Foucauld contemporaneo. È molto difficile per un lettore di oggi accostarsi ai testi di Foucauld. Il vero capolavoro è ciò che lui ha vissuto».

Qual è l’aspetto più attuale del messaggio di Charles de Foucauld?
«Lui non è un santo o un fondatore come Sant’Ignazio o San Benedetto, Sant’Agostino e molti altri. Per capire bene la sua dimensione e il suo contributo bisogna paragonarlo non con loro, ma con i padri del deserto, quelli che nel quarto secolo sono andati a fare un’esperienza di solitudine e dove è nato il primo movimento spirituale. Ha portato in Occidente nella sua epoca il tesoro spirituale dell’Oriente cristiano. Il suo messaggio è questo: se vuoi ritrovare te stesso devi tornare nel deserto. Non necessariamente fisico, ma simbolico».

Nel primo capitolo Charles De Foucauld indica la preghiera, il digiuno e la meditazione come pilastri della fede. Sono aspetti forse un po’ trascurati nel cristianesimo contemporaneo, ce n’è ancora bisogno?
«Noi parliamo di coltivare l’interiorità: questi sono i mezzi individuati dal cristianesimo, e cioè proprio la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Davanti a Dio la preghiera, davanti a noi stessi il digiuno, davanti agli altri l’elemosina. Il problema è che noi cristiani, e in particolare noi sacerdoti abbiamo perso la capacità di attualizzare questi cammini perché siano adeguati alla sensibilità culturale di oggi; ciò non toglie che questi restino anche oggi i fondamenti».

Come mai questi aspetti della vita spirituale sono diventati così “difficili”?
«Siamo sempre proiettati fuori da noi stessi, mai all’interno: sempre con i telefonini in mano, presi a scrivere messaggi; questo è il simbolo della nostra cultura. La vita spirituale comincia quando abbiamo coscienza della nostra alienazione, dicevamo, e qual è la radice di questa alienazione? Ci siamo allontanati dal nostro centro, quello a cui il cammino spirituale dovrebbe riportarci. Per questo io mi sono convertito in una specie di apostolo della meditazione in Spagna, perché sono convinto che senza questo impegno a tornare alla nostra vera patria, a questo cuore cosciente, non c’è niente da fare. Io lo lego moltissimo al lavoro di creazione letteraria».

Perché il silenzio è così importante?
«Senza silenzio la parola è vuota. La parola che veramente tocca il cuore nasce dal silenzio e apre a un altro silenzio. La mia maggiore soddisfazione come creatore di libri è che il lettore possa chiudere il testo e seguire la propria strada attingendo ad esso, ed elaborandolo in modo autonomo. Solo se una creazione risveglia la creatività dell’altro compie il suo vero destino. Sarebbe bello che questo libro ricordasse a ogni lettore che ha la capacità di pregare, di meditare, di stare con se stesso».

Questo è poi l’opposto del fanatismo religioso…
«Il fanatismo è una tragedia ed è il contrario dell’autentica religiosità, è la caricatura, la perversione. Le persone davvero religiose sono come Foucauld, molto aperte, e sono in grado di costruire ponti, di abbracciare chi è diverso, di far nascere un dialogo con l’altro. I fondamentalisti escludono, sono intolleranti e lo fanno in nome della religione, per questo la fede ha perso tantissimo prestigio nella società occidentale. Il prestigio della spiritualità a volte si costruisce sulla mancanza di prestigio della religione, che evidentemente non riesce in questo momento a essere davvero canale di espressione della spiritualità e della vita interiore delle persone».

Su questa strada Papa Francesco, che tende a una riforma della Chiesa, sta trovando parecchi ostacoli. Il fanatismo esiste anche tra i cattolici.
«Senza rinnovamento e creatività non c’è fedeltà al Vangelo ma solo sterile conservazione della tradizione. Ma la Chiesa non può chiudersi nel passato. La nostra fedeltà come cristiani non è soltanto al messaggio, ma pure al destinatario. Non ha senso il messaggio senza il destinatario, e quello bisogna amarlo per poterlo raggiungere. Gesù diceva amatevi gli uni gli altri, ma se io non amo l’altro, che messaggio trasmetto? La fedeltà deve sempre seguire questo doppio binario, oggettivo rispetto al contenuto e soggettivo rispetto al destinatario, se ne tradisce anche uno solo, fallisce la fedeltà alla tradizione. In questo momento la Chiesa dimentica spesso il destinatario, è troppo ossessionata dalla fedeltà esatta e puntigliosa al messaggio. Ma il suo compito più importante è aprire il cuore degli uomini. Charles de Focauld in questo senso è un esempio di evangelizzazione che nasce dall’amicizia. È una parola che mi piace molto, meno sfruttata di fratellanza. Non a caso la rete che io ho creato si chiama amici del deserto. Questo è il contributo di Foucauld, il silenzio, la vita interiore, ed è quello che l’Occidente in questo momento ha più bisogno di ascoltare. Quello che mi commuove di Foucauld è che lui non è un monaco, un missionario, un eremita, è tutto insieme e allo stesso tempo non è niente, è lui stesso perché ha ascoltato la sua coscienza. Per questo è un modello. Il guaio del cristianesimo è che siamo ossessionati dall’essere buoni. Non si tratta di essere buoni, ma di essere noi stessi».