Il mistero delle cose: l’arte contemporanea e il sacro secondo Massimo Recalcati

L’arte anche oggi non rinuncia a misurarsi col mistero. Ne ha parlato ieri sera, nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Bergamo gremita di gente, Massimo Recalcati, ancora una volta ospite della rassegna Molte Fedi Sotto Lo Stesso Cielo. La platea ha seguito affascinata la sua riflessione sull’arte contemporanea, che ha preso le mosse dal suo libro “Il mistero delle cose”, pubblicato nel 2016.

Filo rosso della riflessione dello psicanalista è stata l’evoluzione, o meglio, la rivoluzione dell’arte contemporanea nella sua relazione con l’irrappresentabile.

La riflessione di Recalcati inizia con Papa Giovanni Paolo II e la sua definizione di opera d’arte come “un ponte” in grado di tenere insieme due sponde, il visibile e l’invisibile, il finito e l’infinito, aggiunge il relatore. Il ponte che l’opera d’arte crea fra il visibile e l’invisibile è un’esperienza presente nella biografica di Recalcati fin dalla sua infanzia, quando osservava il padre scrivere e dipingere le dediche a lettere d’oro sulle corone di fiori per i morti. “Pittura che era scrittura, avveniva attorno al mistero dei misteri, la morte, il mistero senza immagine e irrappresentabile”. Riconoscendo all’opera d’arte la capacità, già identificata da Klee, di rendere visibile l’invisibile, Recalcati recupera Van Gogh e il suo desiderio di raffigurare il volto del Sacro, sacralità mai raffigurata nelle tele dell’artista olandese attraverso immagini sacre, ma piuttosto attraverso la sacralità del volto del mondo, mortale umanità dell’assoluto, perché “è attraverso il volto del Figlio, che si può vedere il volto del Padre”.

Recalcati dipinge nove ritratti di artisti capaci di trasformare la spiritualità immateriale dell’arte in sacra incarnazione. Burri, Pollock e Fontana sono gli artisti identificati dal relatore come coloro che hanno provocato sismi nella concezione dell’arte fino ad allora compresa, arte come finestra del pittore, padrone, sua e del mondo. Con Burri la tela perde la sua funzione di supporto dell’immagine, diventando, con i sacchi di iuta, immagine stessa. “Con Burri l’opera d’arte non è più rappresentazione del mondo, di ciò che è fuori dal mondo, ma è rappresentazione di sé stessa e della propria materialità. Burri è l’innovatore del passaggio sovversivo, colui che porta nello spazio sovrasensibile e spirituale il reale incandescente della materia. Burri sovverte cristianamente l’opera d’arte arricchendola di incarnazione spirituale”. Pollock continua l’opera sismica intrapresa da Burri rendendo l’opera d’arte libera dalla gerarchia del pittore, con l’“orizzontalizzazione” della tela, capace di mostrarsi per sé stessa. Infine, Fontana, colui che attribuisce all’opera d’arte un corpo. “Lo spazio è e ha un corpo, ferito. Ma le ferite sono condizione dell’essere umano, e nelle ferite c’è bellezza”.

Raccontando altri autori e loro opere, quali Kounellis, Vedova e Morandi, Recalcati riconosce all’arte contemporanea la bellezza di essersi spogliata della raffigurazione del sacro sulla tela ed essersi materializzata essa stessa in sacra realtà, capace di “sfondare lo spazio chiuso del quadro” e di portare con sé il messaggio che “la morte non è l’ultima parola sulla vita, perché proprio nell’opera [A lume spento, Claudio Parmiggiani, 1986], la luce che illumina la tela è quella delle stelle che continuano a brillare anche dopo la morte”.  L’arte resiste alla morte e al tempo e anche se “Morandi dipinge cose del mondo, semplice e domestiche, logore e impolverate, cose del mondo provate dal tempo e dalla caducità, sono quelle stesse cose che appaiono come sagome di eterno”.

(Nella foto un particolare dell’opera di Parmiggiani)