La montagna, la salita, e le tracce della Grande guerra: le rocce e il filo spinato raccontano un mondo che non c’è più

Questa settimana proponiamo nel nostro dossier quattro sguardi sulla montagna: le tracce del passato, il filo spinato, i resti dei presidi, le battaglie della Grande Guerra di cent’anni fa, gli orizzonti da scoprire, le pareti che avvincono gli scalatori, le salite da conquistare per i ciclisti, l’invito alla preghiera, le presenze silenziose degli animali selvatici.

È metà settembre. Una coltre di nebbia grigia e densa impedisce la vista delle cime innevate. Cala una pioggia fine, affilata, fatta di spilli che penetrano la pelle. Il terreno è un pantano viscido, e l’alloggio puzza di fuliggine, di muschio, di funghi marciti, di terra esausta, sangue e fango. Il sole d’agosto è un ricordo sferzato dalla brezza, una lama tagliente, incessante.

Dal soffitto cade una goccia che scandisce il tempo come un direttore d’orchestra. Cade su una latta che s’increspa del bagliore rossastro della lampada a olio. Ce ne sono due, di lampade. Una all’inizio e una alla fine dello scavo. Emergono dal buio, fievoli, due baluardi coraggiosi che s’oppongono a un’oscurità invadente. Avvicinandoci le mani, per qualche istante, s’avverte il tepore della fiamma e rinasce il ricordo di un’estate trascorsa troppo in fretta.

Lo immagino vicino a quella fiamma, Angelo, mentre soffia nelle mani conserte per sentire una briciola di sollievo. Ha diciannove anni, e se ne sta in piedi a contare le gocce che cadono nella latta pregando che quello sia l’unico rumore che sentirà. Nessun passo, nessun fruscio, nessuna carica improvvisa. Sbircia all’esterno ogni dieci minuti. Osserva la coltre di nebbia e volge lo sguardo alle alture nascoste, agli anfratti umidi dove i compagni riposano infreddoliti, con la divisa zuppa d’acqua, gli scarponi consumati, le dita gelide. Spera di vederli e di fargli cenno da lontano, senza fiatare, perché anche solo uno sguardo basta a sentirsi meno soli.

Toglie un filo d’erba paglia dal mazzetto che tiene in tasca e lo accende alla lampada. Ne aspira una boccata, come quand’era bambino e dormiva all’ombra del larice mentre le bestie erano al pascolo.

Me lo immagino così, Angelo. Con la pelle giovane e qualche chiazza di barba non rasa, la fuliggine appiccicata alle labbra lacerate dal vento e dal gelo ancora prima che dalla fame. Lo immagino con i capelli sudici, imbrattati della terra che cola dal soffitto, e le mani dure e stanche, gli occhi neri, lo sguardo di chi ha scavato così tanto da raggiungere l’altra faccia del mondo. Lo immagino aggrappato a una baionetta come a un bastone d’una vecchiaia giunta in anticipo. Lo immagino mentre allunga l’orecchio verso l’esterno  e a ogni scricchiolio, ogni sibilo, ogni fruscio pensa ora ci siamo, sono qui fuori, e sente il cuore accelerare d’improvviso, come volesse consumare il maggior numero di battiti prima della fine.

Guardo la lampada, che oggi è a corrente, e guardo il buio dieci metri più giù. Immagino Angelo nei suoi calzoni rammendati dove ora, a cent’anni esatti di distanza, nella trincea del rifugio Bozzi a 2500 metri sopra il mare, ci sono io con un completo sportivo da montagna e una reflex.

Ci guardiamo negli occhi. È giovane, molto più di me, e al tempo stesso è più vecchio. Mi offre una boccata di erba paglia e mi fa sentire in colpa. Non passerei qui una sola notte della mia vita. Nemmeno sotto tortura.

Angelo di notti come queste ne ha vissute tante, ed è solo cento anni più vecchio di me.

È la fortuna, forse, che ti fa nascere nel momento giusto al posto giusto, e lui di fortuna ne ha avuta poca. Fa avanti e indietro sulle creste ogni settimana, a difendere posizioni che a me serviranno per testare la suola ammortizzata degli scarponi.

Penso alla mia auto, alla cinghia che devo cambiare, al lavoro noioso nell’ufficio, alle scarse soddisfazioni. Penso alla pensione che non avrò, all’appartamento minuscolo che mi costerà un mutuo trentennale. Penso a quanto vorrei una lavastoviglie e un giorno di ferie per stare sulla riva del lago a guardare gli svassi che s’immergono. Penso allo spritz del venerdì sera, alla giacca di pelle che non ho acquistato perché era un po’ cara. Penso a una discussione avuta con un amico via whatsapp, alla pizza fatta in casa di sabato scorso che è venuta troppo molle, al vetro della cucina pieno di aloni, al sacco vuoto del cibo per cani.

Penso a tutto questo e mi chiedo se Angelo si sarebbe fermato qui a gelare di freddo, a rischiare le vita, sapendo che il sacrificio estremo che gli è stato ordinato mi servirà per protestare all’ennesimo rincaro del pedaggio autostradale, e alla coda nell’ufficio postale il sabato mattina. Guardo Angelo e glielo vorrei chiedere con il cuore in mano: credi ne sia valsa davvero la pena?

Forse direbbe sì, per educazione. Forse no, per sincerità. Forse sì, mostrandomi la foto di sua figlia. Forse no, dandomi uno specchio.

Sono trascorsi cento anni, poco più, da quanto il Val d’Intelvi presidiava l’alta Valle Camonica, e di quel battaglione resta la memoria storica dei muri crollati, dei perimetri di anfratti e rifugi di fortuna, dei residui di filo spinato consumati dalla pioggia. Cent’anni hanno creato un solco abissale.

Guardo Angelo negli occhi, poi fisso le punte dei piedi come un bambino colto in fallo. Non lo sto onorando, il suo sforzo, il suo sacrificio. Perché le lamentele valgono solo se davvero sussistono e non è legittimo dimenticare solo perché la fortuna mi ha fatto nascere qui, ora. La memoria non è ricordare,  è il sistema di riferimento del valore del presente, gli assi cartesiani della nostra condizione attuale.

Questo ho capito, caro Angelo. Sei il mio asso cartesiano. Lo sono i tuoi capelli sudici, il tuo volto bianco quando hai sentito il primo sparo, le tue corse forsennate, il dono del tuo impegno, sei il sistema di riferimento che rende la mia vita unicamente fortunata, ben oltre le quotidiane disgrazie.

Ti ringrazio, Angelo. Al tuo posto, non ne sarei stato capace, lo ammetto.

Guardo le montagne e mi auguro che la loro imponente bellezza ti raggiunga ovunque tu sia. Quello che rimane dell’uomo oggi è troppo piccolo per contenerla tutta.

(Foto di Alessio Mussinelli)