Cesare Battisti. Parlarne per non dimenticare

Il terrorista Cesare Battisti

Il suono di un nome, “Cesare Battisti”, ci riporta alla memoria passate stagioni. Ma è meglio subito “disambiguare”: non è dell’eroe dell’irredentismo trentino, impiccato nel 1916 dagli Austriaci al castello del Buon Consiglio di Trento, che qui si vuole parlare, ma di un avventuriero, a metà tra criminalità comune e terrorismo politico, condannato per quattro omicidi in Italia negli anni ’80, riparato, infine, in Brasile, arrestato dalla polizia brasiliana in questi giorni, al confine con la frontiera boliviana.

La vicenda di Cesare Battisti

Perchè riparlarne? La sua vicenda ci riporta necessariamente ai cruenti anni di piombo del periodo ’70/’80 del ‘900. Secondo l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, sono state uccise, negli anni che vanno dal 1969 al 1988, 428 persone (di cui 197 vittime di terrorismo individuale, 135 di stragi di massa, 58 di terrorismo internazionale, 38 di violenza politica), nel corso di 14.615 attentati. I feriti sono stati più di 1000, alcuni dei quali inchiodati per sempre su una sedia a rotelle. È il caso di Alberto Torreggiani, colpito a 15 anni nella sparatoria che uccise il padre il 16 febbraio 1979, della quale fu organizzatore appunto Cesare Battisti. Il quale era membro dei Proletari Armati per il Comunismo, dopo aver attraversato Lotta continua, Autonomia operaia e sigle minori.

Riuscito a riparare prima in Francia e poi in America latina, si è costruito lungo gli anni un’identità di “guerrillero”, di scrittore e di intellettuale in lotta per una società migliore, ingiustamente perseguitato, torturato e incarcerato. I suoi reati sono stati autoridotti a “espropri proletari”. La giustizia italiana ha sempre chiesto, dopo la sua fuga dal carcere di Frosinone, che scontasse in Italia le pene comminate. Ma le autorità italiane inciamparono subito nella cosiddetta “dottrina Mitterrand”, adottata dal Consiglio dei ministri francese il 10 novembre 1982, che concedeva il diritto d’asilo ai terroristi fuggiti dall’Italia, perché “…i rifugiati italiani che hanno preso parte in azioni terroristiche prima del 1981… hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita…”. Così Mitterrand.

Alle spalle stava la pressione di molti intellettuali francesi, che fin dal 1977, avevano firmato in 27 una denuncia della repressione in Italia, in occasione del settembre bolognese di quell’anno, indirizzata alla Conferenza di Belgrado – convocata in attuazione della Conferenza di Helsinki del 1975 sulla sicurezza e i diritti umani -:

Le “socialisme à visage humain” a, ces derniers mois, révélé brutalement sa vraie figure: développement d’un système de contrôle répressif sur une classe ouvrière et un prolétariat jeunes refusant de payer le prix de la crise d’un côté, projet de partage de l’État avec la démocratie chrétienne (la banque et l’armée à la D.C., la police, le contrôle social et territorial au P.C.I.) au moyen d’un véritable parti “unique”: c’est contre cet état de fait que se sont révoltés ces derniers mois les jeunes prolétaires et les dissidents intellectuels en Italie”.

(Il “socialismo dal volto umano, in questi ultimi mesi, ha rivelato brutalmente il suo vero volto: sviluppo di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato che rifiutano di pagare il prezzo di una crisi, da una parte, e progetto di spartizione dello Stato con la democrazia cristiana (la banca e l’esercito alla DC, la polizia, il controllo sociale e territoriale al PCI) attraverso un vero e proprio partito “unico”: è contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi i proletari e i dissidenti intellettuali in Italia”).

Si denunciava la criminalizzazione del dissenso, soprattutto in Italia e in Germania. Inutile sottolineare che i 27 scrivevano sotto dettatura di Toni Negri e altri, che dipingevano la condizione dell’Italia del compromesso storico come quella della germanizzazione autoritaria. E il terrorismo? Un falso problema! La dottrina Mitterrand sarà di fatto abrogata nel 2002, con ciò aprendo un varco all’estradizione di Cesare Battisti. Che però fece in tempo a rifugiarsi in America latina, prima a Puerto Escondido in Messico e poi in Brasile. Il quale rifiutò di estradarlo, appellandosi ad un articolo del Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile, firmato a Roma il 17 ottobre 1989 e entrato in vigore l’1 agosto 1993: “Se la Parte richiesta ha serie ragioni per ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, o che la situazione di detta persona rischia di essere aggravata da uno degli elementi suddetti”.

Arrestato nel 2007, fu liberato e gratificato dello status di rifugiato politico, grazie alla mobilitazione del Nobel della letteratura Gabriel García Márquez e di altre centinaia di scrittori, intellettuali e rappresentanti di organizzazioni non governative per i diritti umani brasiliani. Tale pressione fu vittoriosa, grazie alla proiezione sul caso Battisti della cultura diffusa della lotta guerrigliera contro le dittature sanguinarie dell’America latina, alla quale hanno partecipato esponenti politici assurti in questi anni a ruoli pubblici di primo piano. Una per tutte, Djilma Roussef, divenuta presidente del Brasile, militante guerrigliera nel Comando de Libertação Nacional e nella Vanguarda Armada Revolucionária Palmares contro la dittatura brasiliana, durata dal 1965 al 1985, e incarcerata dal 1970 al 1972.

Urge verità per non tornare a mitologie scadute

Come finisca questa volta è difficile prevedere. Certo l’orientamento politico del nuovo presidente è del tutto diverso da quello di Lula e Roussef. Sarà probabilmente la Corte suprema a decidere. Ma a noi perchè importa ormai di simili vicende? Qui non interessano né la vendetta né il perdono.

Più semplicemente, ci limitiamo a constatare che molti esponenti di quella stagione, tra cui appunto Battisti, non hanno mai detto una parola di ripensamento profondo della propria esperienza. Chiusi in un autismo superomistico, culturalmente tronfio, sorretto da grandi intellettuali e profetesse di sinistra, che vengono dal lontano ’68, un giorno si sono proclamati avanguardie della rivoluzione mondiale e fanno credere di continuare a stare là davanti, sul Monte Sinai della storia, sempre alla ricerca del Sacro Soggetto Redentore, ieri il proletariato, oggi gli emarginati, gli oppressi, i dannati della Terra… La maggior parte di costoro non si è mai sporcata di una goccia di sangue, sia chiaro, ma a quella guerra civile hanno offerto le motivazioni ideologiche. Esibiscono un solo rimpianto machiavellico: quello di non aver vinto o quello di non essere stati capiti. Oppure, è il caso di Battisti e di altri, continuano a chiedere ostinatamente il riconoscimento di uno status di combattenti nel conflitto che li ha opposti alla comunità politica nazionale. Vogliono non il perdono, ma l’amnistia togliattiana del 1946.

No, la vicenda Battisti non è solo una vicenda di archivio storico. Non lo è per le vittime, che ancora oggi portano nelle carni e nelle loro vite le ferite non rimarginate; non lo è per molti intellettuali di questo Paese, passati indenni come le salamandre nel fuoco di una stagione, che ha falsificato le loro ipotesi; non lo è per quella parte di generazione del ’68, che, a 50 anni dagli eventi, non riesce a cambiare i paradigmi, che l’hanno spinta sulla scena. E chi più delle giovani generazioni digitali di oggi ha bisogno di verità sul nostro passato recente per non tornare a mitologie scadute?