Le monache (non) hanno buon tempo

Ho avuto una discussione con una mia amica. La quale sostiene che “le monache hanno buon tempo”. Non hanno le preoccupazioni della famiglia – dice – e neanche quelle della Chiesa, quelle del mio parroco, per esempio, sempre angosciato per le molte cose da fare e per le molte cose che non vanno per il verso giusto. Ho cercato di difendervi. Ma non ci sono riuscita proprio molto bene. Puoi darmi tu una mano? Ada

Le obiezioni della tua amica, cara Ada, non ci meravigliano, né ci sorprendono! Siamo po’ abituate a simili critiche e affermazioni. Non intendo, tuttavia, stendere uno scritto apologetico per “difendere la categoria”, quanto piuttosto rendere ragione della mia vocazione, condividendo alcune convinzioni che guidano i miei passi.

Non abbiamo le preoccupazioni della famiglia e del lavoro

Non posso dare del tutto torto a quanto è affermato nella tua domanda: a noi, di fatto, sono risparmiate le preoccupazioni proprie di chi ha una famiglia e non ci è dato di sperimentare ciò che un padre o una madre vivono nei riguardi dei propri figli, né le difficoltà di un parroco. Non abbiamo, inoltre, l’assillo di trovare un’occupazione o dei turni di lavoro sovrapposti a tantissimi altri impegni, né di un bilancio economico da far quadrare, ecc.

Le fatiche del vivere, comuni a tutti gli esseri umani, però, non ci sono risparmiate: la vita in fraternità, ad es., comporta un cammino impegnativo non indifferente per uscire da noi stesse, dal nostro io e dai nostri schemi mentali. La quotidianità che scorre sempre secondo il medesimo schema, inoltre, può far sentire il suo “peso” ma, – e qui sta il nostro specifico – cerchiamo di vivere anche le fatiche e le pesantezze della vita nel nome del Signore, assumendole nella loro dimensione redentiva, così da essere misteriosamente, ma realmente feconde e divenire, come ci esorta la nostra madre Santa Chiara, “specchio ed esempio a quanti vivono nel mondo”.

Facciamo nostre le preoccupazioni dei fratelli

Per vocazione, infatti, ciascuna di noi è chiamata a fare proprie le preoccupazioni di tanti fratelli, della Chiesa e dei suoi pastori, a sentire nella sua carne il dolore di tante persone ferite dalla vita, le speranze di tanti fratelli, le gioie per i piccoli passi possibili compiuti, portando tutto nella preghiera e offrendolo al Signore.
La nostra vita in fraternità, in povertà e in letizia dilata, infatti, il nostro cuore e lo rende ancora più sensibile ai fratelli: i tanti drammi di cui veniamo a conoscenza non ci lasciano indifferenti! Al contrario, “feriscono” il nostro cuore, rendendoci solidali a quanti soffrono e piangono; similmente, diveniamo capaci di gioire e di ringraziare per i tanti semi di bene che, nei solchi della nostra quotidianità e del mondo intero, hanno portato molto frutto.

Il monastero non è il paese del bengodi

Insomma, il monastero non è il “paese del bengodi”, come non lo è nessun luogo e nessuna vocazione, ma è uno “spazio” dove, giorno per giorno, ammaestrate dal Vangelo, impariamo ad amare e a donare la nostra vita al Signore, alle sorelle, alla Chiesa e all’intera umanità, facendo delle piccole cose dei ogni giorno “l’altare” dell’offerta, del sacrificio, della gratitudine e della condivisione.
E questa è… “perfetta letizia”.