Per chi parla di razza e di “veri italiani”

Un’immagine della mostra “1938. La Storia”

Nei giorni scorsi a Roma nella Casina dei Vallati, in largo 16 ottobre 1943, il luogo della razzia nazista del ghetto, è stata inaugurata una mostra curata da Marcello Pezzetti e Sara Berger, della Fondazione Museo della Shoah, dal titolo “1938. La Storia”. La mostra, da vedere, ha uno scopo molto semplice che mi racconta lo stesso Pezzetti: “Sono impressionato dallo scoprire che tanta gente non sa, i ragazzi non sanno che cosa sono state le leggi razziali. Con materiale quasi del tutto inedito — fotografie, immagini, documenti — facciamo vedere ciò che è accaduto”.

La mania della razza e le sue follie

Nella mostra fanno impressione gli schemini disegnati a mano dagli “esperti” di “Demorazza”, nel ministero dell’Interno, per calcolare il grado di “razza ebraica”, le immagini dei cartelli sulle vetrine (“Proprietari o personale di questa libreria sono ariani”) o degli ebrei in giacca e cravatta costretti al “lavoro obbligatorio” con ramazze e picconi. La perversione burocratica produce decine di circolari grottesche, pure divieti sui “saltimbanchi girovaghi” o “gli allevatori di piccioni viaggiatori”. I ricercatori hanno trovato un verbale nel quale il presidente del Coni e quello della Federcalcio dispongono la cacciata degli atleti e degli sportivi ebrei: come Arpad Weisz, l’allenatore che vinse uno scudetto con l’Inter e due con il Bologna e morì ad Auschwitz.

Ricordo quando chiesi a Nedo Fiano, unico sopravvissuto di una grande famiglia tutta sterminata a Birkenau, cosa erano state per lui le Leggi Razziali. Prima mi fece vedere il braccio con tatuato A5405 e poi mi rispose cosi: “Vivevo a Firenze e la comunità ebraica allora contava 1500 persone. Era una comunità composita: commercianti, insegnanti, industriali di tutte le categorie della media borghesia. Mia mamma aveva una deliziosa pensioncina con sette camere da letto. Facevamo una vita normalissima. Non c’era razzismo. Ogni tanto ci scappava la scazzottata, l’ebreaccio, ma insomma era normale. A Firenze a quel tempo i ragazzi ci dicevano Cucchina Lanai, cercando di riprodurre la parola ebraica adonai, che significa Dio. Scaramucce, niente di più. Ci sentivamo più italiani degli italiani. Quando arrivarono le Leggi Razziali mi chiamò il preside e mi disse che non dovevo più andare a scuola. Venni cacciato da scuola perché ebreo. Ero un ragazzo, molto legato alla classe, ai mie compagni. A 13 anni mi sembrò di essere davanti ad un baratro. Mi sarebbe bastata una stretta di mano, una consolazione: ‘Nedo non ti preoccupare giocheremo ancora insieme, noi siamo gli amici di sempre, non ti preoccupare non piangere’. Questo non è avvenuto. Mia madre – che nel frattempo a causa delle Leggi Razziali aveva dovuto chiudere la pensione – mi spiegò che la vita era fatta anche di queste cose.”

I bambini di “razza ebraica” cacciati fuori dalla scuola

“Sono nato a Rodi da una famiglia normale: papà, mamma e Lucia, una sorella di tre anni più grande di me. Entrambi andavamo alla scuola italiana. Ho il ricordo ancora vivissimo del giorno in cui, in seguito alle Leggi Razziali, il maestro mi disse che dal giorno dopo non potevo più recarmi a scuola. Avevo otto anni, ero in terza elementare ma ricordo ancora le sue parole. Io non sapevo perché, anzi immaginavo di aver commesso qualcosa e avevo paura di andare a casa e dirlo al papà. Lui mi tranquillizzò e vidi anche altri ragazzi cacciati via. Capii che eravamo stati espulsi perché di “razza” ebraica.” A parlare cosi è Sami Modiano, deportato ad Auschwitz il 3 agosto del 1944, all’età di 14 anni. Sami mentre parla mi mostra il braccio sinistro. Nella carne è impresso il tatuaggio: B7456.

“Ora destatevi”

Sono due delle molte storie che ho avuto il privilegio di ascoltare in questi anni. Come le storie di Hanna Weiss e Liliana Segre, di Piero Terracina e Shlomo Venezia. Mi tengo stretto il ricordo di ciascuno di loro e il monito di Salvatore Quasimodo: “Memoria vi concede breve sonno: ora destatevi”.

Il vento gelido che sta soffiando in Europa, l’agitarsi di tribù barbare che ritornano a parlare di “veri italiani” e rilanciano slogans che si pensavano sepolti insieme agli orrori, obbligano a non dimenticare. Pezzetti, spesso ospite in molte scuole a Bergamo, ne è certo: “Il virus razzista sta penetrando nelle coscienze. Con la mostra noi lo facciamo vedere: guardate i danni che ha fatto”.