La vera emergenza di oggi? L’individualismo. Monsignor Vincenzo Paglia: «Tutti più liberi ma più soli. Dobbiamo ritrovare un orizzonte comune»

“Il crollo del noi” (Editori Laterza 2017, Collana Tempi Nuovi, pp. 208, 15 euro) è il nuovo saggio dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, nato a Boville Ernica (Frosinone) il 21 aprile 1945, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia.
“Se per un verso è vero che l’uomo del XXI secolo può sentirsi più libero, certamente si trova oggi più solo, incurvato sotto il peso di un carico invisibile, e tuttavia pesantissimo. C’è l’Io – la straordinaria conquista della modernità – pieno della sua presunta onnipotenza. Si sente l’Unico”.
Sette i capitoli (più il Prologo) che compongono il testo: “Il monoteismo dell’Io”, “Non è bene che l’uomo sia solo”, “La fragilità della famiglia”, “La sfida delle città”, “Il disordine del mondo”, “Un nuovo umanesimo” e “L’invenzione di una nuova prossimità”.
In queste pagine monsignor Paglia, laureato in teologia, filosofia e pedagogia, giornalista e scrittore, già consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, compie un’analisi lucida ma non rassegnata sulla più grave emergenza del Terzo Millennio: il crollo dei legami umani. “L’individualismo sgretola le anime. Ma la società riparte solo dal Noi” scrive uno dei più autorevoli esponenti della Chiesa di Papa Francesco, il quale esorta il lettore a ribellarsi alla dittatura di Narciso, a quel vuoto insostenibile che ci circonda, figlio della solitudine, per arrivare a una nuova cultura, a un nuovo sogno, a una nuova visione fondata sul riconoscimento dell’importanza del bene comune. Significativamente l’autore riporta nel prologo una frase di Albert Camus (1913-1960), scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo e attivista francese, Premio Nobel per la Letteratura 1957: “Nel mondo in cui viviamo ciò che più colpisce è anzitutto che la maggior parte degli esseri umani (esclusi i credenti di ogni sorta) sono privi di futuro. Senza una proiezione sul futuro, senza una promessa di maturazione e progresso, non esiste una vita che abbia valore. Vivere contro un muro, è una vita da cani. Eppure gli uomini della mia generazione e quelli che entrano nelle fabbriche e nelle università sono vissuti e vivono sempre più da cani”.
Abbiamo intervistato Mons. Paglia (www.vincenzopaglia.it) che partecipa attivamente all’associazione “Uomini e Religioni” e che per il suo impegno per la pace ha ricevuto il premio Gandhi dall’Unesco, il premio Madre Teresa dal governo albanese e il premio Ibrahim Rugova dal governo del Kosovo.

Monsignor Paglia, il punto di partenza delle sue riflessioni contenute nel saggio è un passo della Bibbia, tratto dal libro della Genesi: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Ce ne vuole parlare?
«Quel passaggio della Bibbia che non a caso è scritto all’inizio della storia umana e ha guidato secoli e secoli di storia, è messo in crisi in maniera paradossale dall’affermarsi di un altro principio, quello che è bene che ognuno sia per conto proprio. C’è come una lotta senza frontiere tra questi due principi, lotta che mette a rischio la convivenza stessa dell’uomo nel Pianeta. L’illusione di credere che la felicità sia un patrimonio dell’individuo legato dal resto degli uomini e delle donne è drammaticamente presente. È facile vedere tanti uomini e tante donne con la tristezza negli occhi e nel cuore. Viene in mente l’urgenza di ritornare a quella prima pagina della Bibbia, potremmo immaginare questo ritorno legandoci al pensiero di Dio stesso dopo aver creato Adamo. Pensiamo quindi alla straordinaria scena dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina. Dio vide questa sua creatura, era perfetta tanto che Dio con quell’indice puntato toccò la mano senza vita di Adamo, il quale, come dire, si animò di pienezza. Ma Dio guardandolo negli occhi vide un filo di tristezza e ci ripensò. E Dio creò l’altra, Eva, e Adamo risvegliandosi, vedendo l’altra fu pieno di felicità. Questa scena va ripresa e rivissuta in questo nostro mondo».
Nel testo scrive che “la fraternità è la promessa mancata della modernità”. Si riferisce anche all’esclusione dell’altro che si manifesta con il rifiuto dei migranti, con la polemica contro lo Ius soli?
«Pensiamo alla scena biblica appena descritta che significa l’accoglienza dell’altro, all’attuale tentazione di escludere l’altro dalla propria vita, il collegamento parla da sé… In un certo modo il rifiuto dell’altro è la sindrome di chi si sente solo, anzi unico. È la tentazione del “figlio unico”, quella di non accettare altri in casa propria. Mi viene da pensare a quella casa dove c’è un padre, una madre e un figlio. Questo figlio più che sentirsi solo, si sente “unico” e l’avvento di un altro figlio se non è preparato rischia di considerarlo come un intruso, uno straniero che ruba la stanzetta da letto con un altro lettuccio. Un intruso che ruba lo spazio che bisogna dividere dentro casa, che ruba l’affetto dei genitori. In questo modo quella famiglia si chiude e s’intristisce. È quello che accade se vince la cultura della chiusura e della non accoglienza».
Il libro appare come un grido di allarme per il crollo della dimensione della socialità del Noi, a partire dalla famiglia, dalla città, dalle periferie, dal Paese, dalla società delle nazioni. Si va sempre più affermando una sorta di “egocrazia” peccato principe del nostro tempo?
«Sì, è un grido di allarme, perché la società sta crollando come le pareti delle case e restano solo delle colonnine. Ognuno per conto proprio, tutti liberi ma tutti più soli. Una società frantumata, disintegrata, senza un orizzonte comune verso cui andare. È impressionante la perdita di legami nella casa, nella città, nei Paesi, tra i popoli. La fraternità che sta all’origine del mondo moderno con la Rivoluzione Francese è appunto la grande dimenticata. Cosa fare? Di fronte all’egocrazia, cioè potere dell’Io, dobbiamo ritrovare la passione per la prossimità, diventare prossimi per gli altri».
“Di fronte alle grandi sfide del mondo contemporaneo, mi pare evidente che credenti e umanisti debbano sentire la responsabilità di tessere una nuova e più profonda alleanza”. Come tornare dall’Io al Noi, a un nuovo umanesimo globale?
«Purtroppo quello che sta accadendo è una sorta di contraddizione, mentre si rafforza la globalizzazione sembra rafforzarsi il suo contrario: l’individualizzazione. È una contraddizione che non può esistere, perché viviamo in un unico Pianeta, in un’unica casa comune, in un’unica umanità. Dobbiamo riscoprire il grande sogno di rendere il Pianeta una casa comune e i popoli una famiglia comune. In questo senso la regola semplice per poter intraprendere la reinvenzione della prossimità o la riscoperta della fraternità, è la seguente: smettiamola finalmente di chiederci solamente “Chi sono io?”, per porci la domanda più radicale, più urgente, “Per chi sono io?”».
“Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento, quanto un cambiamento d’epoca”. Queste le parole rivolte da Papa Francesco ai partecipanti al Convegno ecclesiale di Firenze del 10 novembre 2015. Nel libro cita spesso Bergoglio, il quale ha fatto come “impegno principale del suo pontificato l’incontro della Chiesa con la modernità” come ha scritto Eugenio Scalfari su Repubblica durante la recensione del Suo saggio. Concorda con la riflessione del fondatore di Repubblica?
«A me pare che la comprensione di Scalfari sul pontificato di Papa Francesco visto come una Chiesa che esce per incontrare il mondo sia fondamentalmente corretta. Non c’è dubbio che Bergoglio sia il primo tra tutti noi anche nell’esempio. Papa Francesco è un cristiano semplice, vive fuori dal Palazzo, o meglio, fuori dalle certezze e dalle sicurezze per andare incontro a chiunque abbia bisogno. Questa è la certezza che deve affermarsi nel mondo contemporaneo. Una certezza sentita non tanto da noi che stiamo bene, ma che deve essere sentita da chi sta male. Questi ultimi devono essere certi che i cristiani, gli uomini di buona volontà, in un’alleanza da ritrovare, siano davvero più vicini a loro, agli esclusi, alle periferie degradate ed esistenziali».
“Dedico queste pagine alla Comunità di Sant’Egidio. Esse non ne raccontano la straordinaria esperienza religiosa ed umana, ma da essa traggono ispirazione e linfa”. Tra pochi mesi, nel gennaio 2018, la Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, festeggerà 50 anni di vita, ed è oggi diffusa in più di 70 Paesi in diversi continenti. Che ricordi conserva dei primi anni di Sant’Egidio?
«Il ricordo indelebile di allora, che accompagna ancora oggi tutti coloro che vivono questa straordinaria esperienza religiosa e umana, è quello di avere in una mano il Vangelo e nell’altra l’aiuto per i più poveri. L’esperienza di Sant’Egidio conserva la forza di resistere alla dittatura dell’Io per percorrere la strada dell’edificazione del Noi. Questo è il senso di questa esperienza iniziata cinquant’anni fa nelle borgate di Roma e che oggi vive nelle borgate di settanta Paesi»