La campagna social contro gli abusi sulle donne: ma ci vuole più di un hashtag per sradicare una mentalità vecchia di secoli

Molestie, apprezzamenti pesanti indesiderati, palpeggiamenti, abusi. E ancora, paura di non essere credute, denunce cadute nel vuoto, insinuazioni secondo cui “tanto vi piace”. È una fotografia della realtà a tinte più che fosche, quella che sta emergendo in questi giorni in rete: una realtà in cui quasi ogni donna o ragazza può tirare fuori almeno un episodio in cui è stata aggredita sessualmente, importunata, trattata come un oggetto o ricattata nella sua sfera più intima. A delineare questa truce immagine sono gli hashtag #metoo e le sue declinazioni nelle varie lingue, grazie alla campagna lanciata dall’attrice Alyssa Milano perché le donne non tacciano sugli abusi subiti: in pochi giorni la campagna – partita a seguito del caso Weinstein e della denuncia di numerosissime star di Hollywood circa i ricatti e le molestie messe in atto dal noto produttore cinematografico – è diventata virale. In meno di ventiquattr’ore l’hashtag è diventato un trend topic e si sono moltiplicate le segnalazioni. In Italia la campagna è definita dall’hashtag #quellavoltache, con il quale sempre più persone hanno iniziato a sollevare il velo su un problema costantemente taciuto o sminuito: quello degli abusi.

Facebook e Twitter si sono riempiti in pochi giorni di narrazioni fin troppo tristemente simili: #quellavoltache il fidanzatino di allora ha abusato di me anche se io avevo detto no; #quellavoltache per ottenere un lavoro mi è stato chiesto di soddisfare il capo; #quellavoltache ero piccola e mio zio mi ha toccata e io non ho detto nulla perché mi sentivo sporca. Ma anche, #quellavoltache mi è stato detto che i fischi me li merito se indosso una minigonna, oppure #quellavoltache ho avuto paura a tornare a casa di sera perché uno sconosciuto mi ha seguita, dandomi della “stronza” per non aver risposto ai suoi apprezzamenti pesanti. Una narrazione di episodi piccoli e grandi, che tracciano le proporzioni di una quotidianità vissuta – in un modo o nell’altro – da tutte noi. Ed è una quotidianità che spaventa, fa sentire sporche e sbagliate, e insinua il dubbio che il problema siamo proprio noi in quanto “donne”.

La campagna #metoo e #quellavoltache non cambieranno le cose. Non faranno tacere gli abusi, non muteranno da sole una mentalità che permette ad un uomo di sentirsi nel pieno diritto di dare della “zoccola” ad una donna che non ci sta o che si veste in un certo modo. Ci vuole ben altro che non qualche hashtag per sradicare una considerazione della donna che affonda le sue radici in secoli di sottomissione da un lato e legittimazione dall’altro: ci vogliono educazione, tutele, ci vogliono donne che per prime ammettano il problema e crescano figli, fratelli e mariti capaci di accettare un no e di vedere una donna come una persona, prima che come una proprietà. Ma le campagne lanciate sui social hanno un grande, enorme potere fino ad ora sottovalutato: quello di dare le reali proporzioni del fenomeno. Quello di mostrare che il problema non dipende dai centimetri di stoffa di un vestito o da quanto una ragazza è disinibita, ma anzi: riguarda tutte, donne mature e bambine, ragazze timide e ragazze estroverse.

E soprattutto, le campagne #metoo e #quellavoltache obbligano a porsi delle domande. Tu che sostieni che “certe cose ce le si cerca”, che “vestita così per forza che capita”, che “gli avrai fatto credere chissà cosa”, che “eh ma lo sai gli uomini come sono”… Tu che pensi queste cose – uomo o donna che sia – sei davvero sicuro che se l’era cercata anche tua figlia, tua moglie, tua sorella, tua madre? Perché è capitato anche a loro. È capitato almeno una volta a tutte. E allora, forse, il problema non siamo noi. È ora di iniziare a rendersene conto.