La fame e le carezze: per “amare con i fatti” ci vuole uno sguardo diverso sulla povertà

“Non mangiamo carezze” dice uno dei cartelli esposti nell’ex carcere di Sant’Agata in Città Alta nell’ambito della mostra “Fame”, promossa dalla Caritas in occasione della Settimana dei poveri. Ne ha raccolti molti l’artista francese Sabine Delafon camminando per le strade, fermandosi ad ascoltare i questuanti, ognuno con la sua storia. Li ha comprati e trasformati in opere d’arte e poi in oggetti che si traducono a loro volta in donazioni per dare davvero da mangiare a chi non ne ha. Questa è già in sé una bella storia, non solo e non tanto per la mostra in sé, ma per il gesto che l’ha generata: e cioè fermarsi, regalare del tempo, fare spazio a un mondo “residuale”, a cui non daremmo normalmente alcun valore.

E’ nello sguardo il grimaldello che spinge ad aprire altre porte: noi spesso sfuggiamo gli occhi di chi chiede aiuto, non facciamo alcuno sforzo per capire chi è, perché è arrivato lì, che cosa vuole dire davvero. Quelle persone restano ai margini del nostro campo visivo come della strada, espulsi dai ritmi forsennati delle città. I cartelli però, tolti dal marciapiede e appesi alle pareti di un ex carcere, un luogo di solitudine, di sofferenza e di abbandono, costringono a pensarci seriamente, e appare chiaro che non parlano soltanto di loro – degli esclusi, dei poveri – ma di noi stessi. Con parole molto semplici (“Non mangiamo carezze”) ci spiegano quanto siamo propensi a offrire alle persone ciò che pensiamo di poter dare, ciò che vogliamo, non necessariamente ciò di cui hanno bisogno. E a nostra volta ci sentiamo sempre in credito col mondo e con le altre persone. Un atteggiamento culturale ancor prima che sociale. “Siamo tutti poveri di qualcosa” ha detto l’artista. Diventiamo facilmente questuanti di affetto, tempo, amicizia, solidarietà, ascolto, comprensione, stima, e puntualmente non otteniamo quanto vorremmo. Ce n’è abbastanza per spingere a ragionare sulla povertà da un altro punto di vista, solo apparentemente più astratto. “Come mai – ha chiesto il vescovo Francesco Beschi nel corso della presentazione della Settimana dei poveri, in corso fino a domenica 19 – in una terra così generosa di opere com’è la diocesi di Bergamo questo grande proliferare di iniziative non genera un clima diffuso e condiviso di solidarietà?”. Una domanda impegnativa, che merita una sosta. Forse sono – prima di tutto – proprio il tempo, lo spazio, l’ascolto, lo sguardo che ci mancano – i fondamenti, l’abc, gli ingredienti per un incontro vero, che tenderemmo a dare per scontati – e la capacità di riconoscere che questa mancanza, prima di qualsiasi altra, può essere una forma di povertà, quella che spinge verso lo sfilacciamento dei meccanismi di coesione sociale. Forse è lì, in fondo, che si nasconde la chiave che permette di essere davvero vicini a chi chiede aiuto (non soltanto beni materiali, ma amicizia, affetto, parole), senza chiedere nulla in cambio, e di provare ad “amare con i fatti”, così come chiede il messaggio di Papa Francesco.