Le nuove povertà al cinema: dalla solitudine di “Still Life” alla fiaba sociale “Trash”

All’interno dell’iniziativa denominata Settimana dei poveri, organizzata dalla Caritas diocesana bergamasca, viene proposto anche un percorso cinematografico, in collaborazione con il SAS (Servizio Assistenza Sale, www.sas.bg.it), per affrontare il tema della povertà e da usare come spunto per dibattiti o incontri. Una serie di cinque titoli che spaziano dal documentario al film di finzione perfino alla commedia (si può anche far riflettere sorridendo), molto diversi tra di loro ma proprio perché diversi sono gli approcci che si possono e forse, si devono, tenere quando si parla di “povertà”, tema che oggi si intreccia inevitabilmente con quello delle migrazioni, delle “nuove” povertà, della loro più o meno marcata visibilità non solo nei media ma nelle nostre vite.
Ecco perché trova giustamente posto in questo piccolo ma significativo percorso, un film come “Still Life” di Uberto Pasolini, produttore cinematografico italiano che da più di trent’anni vive e lavora in Gran Bretagna e che ogni tanto ama cimentarsi anche nella regia. Il protagonista di “Still Life”, John May (il sorprendente Eddie Marsan), lavora per il Comune di Londra come addetto alla ricerca di familiari, amici, parenti o eredi delle persone che muoiono in solitudine. Persone sole che muoiono nell’indifferenza anche dei vicini più prossimi come scoprirà con sgomento lo stesso John quando dovrà occuparsi di un defunto suo dirimpettaio di cui non sospettava nemmeno l’esistenza. Scrupoloso e meticoloso fino quasi all’ossessione, John organizza le esequie dei defunti, se non riesce a rintracciare parenti o amici presenzia, da solo, al loro funerale, sceglie l’eventuale sermone (a volte lo scrive lui stesso) e le musiche da fare eseguire durante l’ufficio funebre. Come si vede siamo in un territorio ben preciso quello della solitudine. In questo caso si tratta di un particolare tipo di povertà che potremmo definire degli affetti. Non sempre, infatti, si tratta di pura e semplice povertà economica, don Lorenzo Milani, per esempio, si preoccupava di più dei “poveri di parola”, tanto per dire. Gioca invece sul modello di “The Milllioner”, il film di Stephen Daldry, “Trash”, ambientato in una favela di Rio del Janeiro dove tre intraprendenti ragazzini che ogni giorno rovistano nella spazzatura, trovano un portafoglio smarrito da un personaggio molto potente e che contiene documenti compromettenti. Tanto che un losco poliziotto promette ai ragazzi una cospicua ricompensa se lo ritroveranno. Ma, capita l’antifona, i tre, Raphael (Rickson Tevez), Gardo (Luis Eduardo) e Rato (Gabriel Weinstein), giocheranno d’astuzia mettendo in atto un loro preciso piano. Come è stato scritto: “Dopo un inizio da film di denuncia sociale, che ci trasporta sbigottiti e sgomenti nel sordido ambiente in cui i tre ragazzi trascorrono realmente la loro giornata, la storia vira verso stilemi decisamente avventurosi e surreali”. È un po’ un tentativo di coniugare la denuncia sociale con la fiaba, di utilizzare gli strumenti del documentario ibridandoli con il cinema hollywoodiano. Con “Gli invisibili”, invece (in originale “Time Out of  Mind”), siamo a New York dove per le strade di Manhattan, si aggira George Hammond (un efficacissimo Richard Gere), un uomo caduto in disgrazia e costretto a vivere chiedendo la carità. Non sappiamo quasi niente di lui, soprattutto non sappiamo come sia finito ad ingrossare le fila degli “invisibili”, come li chiama il film, dei clochard, dei “barboni” che si contendono le briciole della società opulenta. “Non ricordiamo un altro film – ha scritto Roberto Nepoti – che esprima così bene la solitudine, lo smarrimento, la monotonia delle giornate degli ‘ultimi’. La cinepresa inquadra spesso le peregrinazioni del protagonista – tra ospizi per senzatetto e ospedali – inquadrandolo dietro superfici di vetro, grate e cancelli: come a rivelarne la ‘trasparenza’ agli occhi del mondo” (un film, cui potrebbe fare da contraltare l’italiano “Gli equilibristi” di Ivano De Matteo, con Valerio Mastandrea nei panni di un quarantenne che, dopo il divorzio, scende tutta la scala sociale finendo con il dover dormire nella propria automobile). Non potrebbero essere più diversi invece in film italiano dei torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, “Sette opere di misericordia” e la commedia della regista francese Alexandra Leclère, “Benvenuti… ma non troppo”. A descrivere il primo basteranno le parole di Maurizio Porro sul Corriere: “I De Serio, gemelli torinesi video artisti raccontano la strana, complice alleanza tra brutta sporca cattiva moldava e anziano cui urge affettuosa cura. Un mondo grigio, emarginato in cui non vale più far teatro, basta registrare dolori, fatti e volti. Un cinema che crede nella missione morale e due autori difficili che adorando uno stile assai dogmatico vi introducono il germe poetico di una difficile comprensione, quel qualcosa di inespresso e misterioso che solo i bravi attori sanno sottintendere”. Il secondo andrà preso un po’ con le molle, perché si tratta sì, di una commedia anche piuttosto gradevole, ma con il rischio di annacquare la materia di cui tratta (il governo francese obbliga chi abbia stanze vuote in casa ad ospitare dei bisognosi), con scivolate verso un macchiettismo sgradevole e la sensazione che si stia semplicemente “giocando” con una materia che non lo consentirebbe. O meglio, che lo consentirebbe ma se fatto con intelligenza. Comunque , questa manciata di titoli, sta a dimostrare che anche il cinema può raccontare, quando vuole, delle storie legate alla cronaca, alla quotidianità, cercando però di elevarle a racconto, a narrazione. Un tema, quello delle povertà, che non è certo appannaggio della cinematografia contemporanea, perché basta volgere lo sguardo all’indietro per incontrare la schiera dei vagabondi raccontata magistralmente da Chaplin o imbatterci nell’”Umberto D.” di Vittorio De Sica.