Suburra, non solo una serie tv, ma un docufilm sulla Roma del mondo di mezzo, al confine tra politica e criminalità

Suburra è una serie televisiva italiana del 2017, prequel dell’omonimo film del 2015, a sua volta ispirato dal romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini. Si tratta della prima serie televisiva italiana prodotta da Netflix, la nuova frontiera della fiction di alta qualità, quella che lascia al generalismo di convenzione innocui crime di paese e garbate saghe familiari, per occuparsi dei più inquietanti fenomeni del presente. Suburra sembra un docufilm sulla Roma del mondo di mezzo e dei furbetti del quartierino, di quell’impercettibile confine sul quale si incontrano la politica e la criminalità, le penombre di un’amministrazione contaminata e la potenza corruttiva di una rete imprenditoriale senza scrupoli. Il male da vedere è bello. Come succede sempre la rappresentazione del male suscita attrazione.

 

Se ben confezionata dalle arti magiche della migliore serialità televisiva essa viene dotata di una estetica che trasforma un esercizio che vorrebbe essere di denuncia in uno spettacolo di culto. Il racconto di questa umanità degradata e corrotta, tribalizzata e decomposta, rigogliosa e vitale negli infiniti spazi di amoralità sostanzialmente abbandonati dalla cosiddetta società civile, ha evidentemente la forza di toccare sentimenti di fondo, umori elementari, un vocabolario della vita rudimentale e immediato, dal quale lo spettatore non riesce a staccarsi. Sembra una nuova edizione, mediale e aggiornata, di quei primi undici capitoli di genesi che parlano della strana natura dell’uomo vista attraverso le nebbie della sua inconcepibile propensione al male. Ma questo originario antropologico, che una serie televisiva riesce a scoperchiare trasformando in epica televisiva vicende di criminalità urbana, chiama in causa anche quelle profonde e subliminali implicazioni col sacro che la campagna pubblicitaria chiamata a promuovere la serie mette allo scoperto con esplicito linguaggio religioso. Il concept pubblicitario, che tappezza letteralmente Roma con giganteschi manifesti visibili ovunque, ruota attorno allo slogan NON C’È PIÙ NIENTE DI SACRO, declinato in una specie di anti decalogo in cui i personaggi principali della serie appaiono come strani santi aureolati portatori di un comandamento uguale e contrario a quello della tradizione biblica. Una specie di anti creazione che l’assenza di legge in questa vita civile imbarbarita finisce per consacrare. La sigla finale, cantata dal rapper romano Er Piotta, si intitola SETTE VIZI CAPITALE.