La saga di Star Wars e la lezione degli ultimi Jedi: imparare dalla fragilità e dalla paura per rialzarsi dopo un fallimento

Uscito nelle sale il capitolo VIII della trentennale saga di Star Wars (Gli Utimi Jedi), molti hanno storto il naso di fronte alla cornice di eccessiva auto-ironia che i nuovi produttori hanno usato per inquadrare il sequel di una storia tanto amata. Nel condividere le perplessità per le tante concessioni alla commedia (l’humour verso gli stereotipi sulla Forza tanto per cominciare, ma poi le battute da cartone animato nei momenti clou, fino alle custodi del tempio Jedi che sono di fatto anfibi vestiti da suore) che dissacrano il dramma e sembrano prendere in giro lo spettatore, mi pare di poter dare una lettura di questa nuova trilogia che per come si sta sviluppando sembra essere una continuazione perfettamente coerente delle prime due.

Ora, senza voler fare di George Lucas e dei suoi eredi i nuovi filosofi dell’epoca contemporanea né i nuovi dottori di nessuna chiesa, sembra che questo secondo film abbia dato un peso specifico a questa nuova stori-sequel che nell’episodio precedente sembrava tirata per i capelli su binari scontati e mortificanti. Cosa poteva fare il nostro Luke Skywalker dopo aver annientato i Sith, redento il padre Prescelto e salvato la Galassia, se non darsi all’addestramento di nuovi allievi secondo lo schema naturale ma banale e prevedibile dell’allievo eccellente che diventa maestro o del campione invecchiato che diventa allenatore? Quanta fantasia ci vuole per inventare un nuovo nemico dalle modalità simil-naziste guidato da un nuovo ordine nemesi di quello Jedi? E siccome i vecchi personaggi sono da pensionare, chi andare a cercare se non un maldestro nipotino guidato da un maestro brutto e super-cattivo opposto a una bella ragazza che sdogani il femminile nella forza?

Queste erano le due perplessità più grosse lasciate da Episodio VII – Il Risveglio della forza, che aveva tutta l’aria di un tentativo maldestro di portare avanti una storia già compiuta in sé. Ma il film appena uscito sembra ricomporre un quadro molto più pensato di quanto si sospettasse. Il finale della trilogia originale lasciava Luke e la Ribellione vittoriosi con l’Impero sconfitto e l’equilibrio ristabilito. Ora, nessun Jedi vivente è rimasto, tranne Luke, e tutti sappiamo che solo lui potrà perpetuare la confraternita e insegnare a governare la Forza per combattere il Lato Oscuro. Della sorte di questo tentativo racconta la terza trilogia. Luke si sente in dovere di trasmettere le sue conoscenze prima che muoiano con lui, ma sostanzialmente il suo è un pensiero manicheo: il Lato Chiaro, Bene, è prerogativa dei Jedi e chi è alleato con loro può condividerlo, gli altri appartengono al lato Oscuro, Male. Ora il volenteroso Luke, che già una volta ha salvato la galassia, non può esimersi dal gravoso dovere che gli impone il suo potere Jedi di perpetuare questa confraternita. Ma qualcosa fa saltare questo schema di auto-glorificazione. Il discepolo ed erede più diretto, sangue del suo sangue affidatogli dall’amata sorella, nasconde l’inatteso, un potere più potente anche del suo che non si è ancora volto né al Bene né al Male, avendo davanti a sé un grigio ancora troppo grande per poterli distinguere. Un’ambiguità inconcepibile per gli schemi del paladino Jedi, e tanto inaccettabile da fargli pensare di doverlo eliminare. E in quel maldestro frangente l’allievo, vedendosi minacciato dal maestro, prende addirittura la decisa via verso lato Oscuro, rovinando tutti i progetti di Luke che vede abbandonato al Male, ora rinvigorito, il nipote affidatogli con cieca fiducia dalla sorella e dall’amico. Un fallimento in accettabile, una decostruzione repentina e crudele del proprio ruolo di perfetta incarnazione del Bene, che lo porta a chiudersi alla Forza ed esiliarsi nell’eremitaggio del luogo di origine dei Jedi, desideroso di distruggerlo ma incapace perfino di far quello. Medita così il nuovo Luke, in cui tutti ripongono speranza meno che lui stesso: i Jedi, dice ora, non servono più, e lui stesso rifiuta di esserlo. Si rendo conto che il Bene non è prerogativa dell’ordine di cui lui è l’ultimo continuatore, che anzi ha più volte spianato la strada al Male commettendo errori generati dall’ingenua illusione che la Forza fosse una loro prerogativa e che i Jedi le fossero necessari, o che il Male fosse morto con i Sith.

Nel rovesciamento dello schema delle due prime trilogie, quando nel secondo episodio la nuova promessa Jedi viene addestrata da un maestro, Luke rifiuta così di addestrare Rey, in cui trova la stessa potenza inattesa trovata in Ben Solo, e di aiutare la Resistenza, non perché non lo ritenga giusto ma per paura di fallire nuovamente. L’addestramento si limiterà ad una decostruzione delle epopee auto-compiacenti sui Jedi e ad un elogio contemplativo della Forza vivificante, che dà origine alla vita ed alla morte in un cerchio grazioso su cui anche Rey apre gli occhi meravigliandosi. L’apprendista troverà poi il coraggio di calarsi nell’Oscurità misteriosa che abita l’isola e che tanto spaventa Luke e vi troverà solo se stessa, le proprie paure e i propri fallimenti, della quale lei stessa prenderà consapevolezza superandone la paura paralizzante, cosa che non sa fare l’ultimo Jedi. Quando anche Rey è partita, Luke si accinge a bruciare il tempio, ma chi può intervenire per illuminarlo se non il vecchio Yoda? Ci sono, certo, ragioni più prosaiche (tra i maestri Jedi, è il più facile da riproporre non necessitando di re-scritturare i vecchi attori…). Eppure il più saggio di tutti i Jedi guarda caso è quello che ha alle spalle i fallimenti più grossi: il suo allievo (Dooku), diventa un Sith; l’esercito dei cloni da lui recuperato è un Cavallo di Troia che stermina i Jedi, il Signore dei Sith prende il potere sotto il suo naso, il Prescelto della Forza scovato dai Jedi prende la via del Lato Oscuro. Solo lui, re dei fallimenti che prima di morire ha addestrato l’unica carta vincente dei Jedi, può convincere Luke a tornare ad aiutare i propri amici e sarà lui stesso a bruciare il tempio Jedi, emblema dei crucci di Luke che sta passando la vita a costure strutture e sovrastrutture che incasellino il Bene pensando che da esse questo dipenda. È con l’estrema libertà di chi si sente prezioso ma non necessario che saprà comparire (la trovata dell’ologramma esprime allo stesso modo la presenza e la lontananza) senza dettare al Bene le sue regole, ma proteggendone la scintilla morente e indicando una via che gli amici percorreranno senza di lui, esca ingannevole per il furore dell’ex-allievo, che ora può affrontare e guardare negli occhi senza paura prima di farsi da parte definitivamente.