La politica. Bisogna fare promesse mirabolanti per vincere. Ma se si vince è impossibile mantenerle

La sequenza infernale che stringe come un cappio il collo delle forze politiche in questa campagna elettorale, già imperversante da mesi, l’ha ben descritta, per ultimo, Michele Salvati sul Corriere della Sera: se dici la verità al Paese, non raccogli il consenso sufficiente per governare. Più le spari grosse, più fai promesse luccicanti (veterinario per tutti i possessori di cani, dentiere per gli anziani, reddito universale di cittadinanza, abbassamento delle tasse fino al 15%, due monete – euro e lira -, età pensionabile minima possibile, Europa sì, ma anche no…) e più mieti voti. Se poi, da dilettante, ti metti a inseguire chi, da professionista, promette di più da sempre, arriverai sempre secondo. In ogni caso, una volta giunto nei pressi del governo, non sei in grado di mantenere le promesse, cioè non sei in grado di governare.

L’opinione pubblica e l’opinione pubblicata

Intanto, la prima promessa fasulla, che pressoché tutti i partiti ripetono, è quella classica, che risuonò infausta già una volta a Piazza Venezia: “vinceremo!”. Le idee e i programmi sono proposti non in base al criterio del fattibile/non fattibile, ma a quello del vincere/perdere. Idee usa e getta. Sembra che quasi tutti i partiti abbiano tranquillamente accettato questa condizione, per la quale, in forza di una nuova legge di Gresham, il consenso cattivo scaccia quello buono. Perciò fanno a gara a chi promette di più in una specie di staffetta olimpionica delle promesse improbabili.

Il rischio è evidente a chiunque: che un Paese convalescente, uscito gracile e spossato dalla lunga crisi del 2008, ricada gravemente malato e che la spirale del debito pubblico lo riavvolga nel suo movimento inarrestabile. I principali leader di opposizione e di governo conoscono benissimo la condizione reale del Paese e sanno che l’Italia è in bilico, ma… come si fa a dire la verità al Paese, se non la vuole? L’Italia ha un bisogno disperato di riforme, ma… come si fa a proporle, se il Paese non ne vuole sapere?

D’altronde, il principale mezzo di comunicazione tra partiti e elettori non è più il partito stesso – con il suo gruppo dirigente, le sue articolazioni sociali e civili, i suoi militanti – ma i mass-media. I quali non sono affatto lo specchio fedele di ciò che pensa l’elettorato, non sono affatto “l’opinione pubblica”, ma soltanto “l’opinione pubblicata”. L’espressione, usata negli anni passati da Ratzinger, è stata coniata un paio di secoli fa dal cancelliere imperiale Klemens von Metternich, che da noi gode tuttora di cattiva fama per quell’espressione-insulto con cui definì cinicamente l’Italia “un’espressione geografica”. “L’opinione pubblicata” è certamente attribuibile ai giornalisti e ai direttori dei mass-media; ma essa non rispecchia l’opinione pubblica, per la semplice ragione che la sostituisce. Le opinioni non sono tratte dall’anonimato, non sono fornite di voce. Sono create e pubblicate.

I fatti taciuti o inventati

E i fatti? O sono taciuti – quando non collimano con l’opinione pubblicata – o sono dilatati e inventati. Così giornali e canali televisivi si muovono nel mercato politico come soggetti-partito, più forti dei partiti storici. A meno che questi ultimi diventino delle dépendances dei suddetti. Non è sempre stato così. Questa relazione anomala è tanto l’effetto della caduta della capacità di egemonia dei partiti e della politica quanto di un abbassamento della cultura pubblica del Paese. Ridotti a partiti personali, a comitati elettorali, senza presa reale sui territori, con gruppi dirigenti locali che operano in franchising rispetto alla sigla nazionale, non hanno più il polso dell’opinione pubblica. Perciò sono costretti a usare i termometri alterati dell’opinione pubblicata. Sì, ci sono i sondaggisti pagati e spesso clamorosamente embedded, che registrano le opinioni dei cittadini lungo i binari costruiti delle domande/risposta, ma – si è costretti a chiedersi – tanto le domande/risposte nascono sul terreno dell’opinione pubblica o su quello dell’opinione pubblicata?

Quanto allo stato reale della società civile del Paese, occorre solo notare che alle storiche diseguaglianze della società italiana e a quelle più recenti, prodotto della globalizzazione, si devono aggiungere, in prima fila, quelle derivanti dalla diseguale distribuzione dell’informazione/formazione sui dilemmi-chiave del nostro destino nazionale. Se le radici della democrazia liberale sono il “conoscere per deliberare”, è del tutto evidente che esse minacciano di seccare.

Ma é possibile passare dal lamento al cambiamento? È possibile spezzare “il complesso militar-industriale” dei mass-media-partiti reciprocamente embedded? All’epoca della grande contestazione – sono passati cinquant’anni – si inventò la contro-informazione: contro-giornaletti, contro-riviste, contro-cinema, contro-teatro, contro-volantini e, soprattutto, il contro/passa-parola, la contro-assemblea… Rispetto ad allora, la tecnologia ha fatto passi all’epoca neppure sognati. La Rete e gli individual-media sono divenuti oggi il grande strumento della battaglia per la verità dei fatti e, si intende, anche per… la falsità dei fatti. Un luogo dove praticare la parresia. A meno che ci rassegniamo a ridurre l’Italia a “espressione geografica”. Basterà? L’esperienza della campagna elettorale di Obama insegna che, alla fine, ciò che conta è il contatto personale, il porta  a porta, casa per casa, con migliaia di comitati sul territorio nazionale. Tocca ai partiti riprendere il contatto riflessivo e personale con i cittadini. Sarebbe il modo per riconnettere la politica al Paese.