I templi dello shopping aperti la domenica: «Andarci è un nuovo rito, ma privo di relazioni e d’identità»

Schiavi. Papa Francesco ha usato questa parola per definire la condizione di quelli costretti a lavorare la domenica, come “vendeuse” di boutique del centro città o dipendenti di negozi del nuovo Oriocenter, centro commerciale a Orio al Serio in provincia di Bergamo che dopo l’ampliamento inaugurato lo scorso maggio è diventato il più grande in Italia e tra i più grandi d’Europa.
«Fu il senso cristiano del vivere da figli e non da schiavi, animato dall’Eucaristia, a fare della domenica, quasi universalmente, il giorno del riposo» ha precisato Bergoglio alcune settimane fa, durante un’udienza generale del mercoledì. Papa Francesco ponendo l’accento sulla necessità del riposo settimanale, ha riacutizzato una vecchia polemica mai del tutto sopita, da quando il Governo Monti nel 2012 liberalizzò l’orario di apertura dei negozi.
Agli italiani però questa formula dei “7 giorni su 7” piace molto, perché dai grandi negozi di città a quelli dei centri commerciali, dagli ipermercati ai supermercati si lavora e si vende a tutto regime. Infatti, lavorare nei giorni festivi equivale a fare nove miliardi d’incassi in più. Se i commercianti confessano che gli affari si fanno nel weekend, è logico che tutto ciò abbia modificato i comportamenti delle persone e anche i loro valori.
L’abbiamo chiesto a Rita Bichi Professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Sociologia generale, Metodologia della ricerca sociale e Modelli di pensiero delle scienze sociali. I comportamenti senz’altro, per quanto riguarda i valori, non sono sufficienti i grandi centri commerciali a modificarli.
«Sicuramente i centri commerciali non hanno influito direttamente sulla modificazione dei valori della nostra società – spiega la professoressa Bichi – ma sono una conseguenza di tutto un processo di ridefinizione anche valoriale. Il successo, il guadagno, i soldi, il profitto sono diventati una guida per la nostra società, purtroppo. Si sono modificati certamente i comportamenti e gli stili di vita perché le famiglie la domenica, con bambini al seguito, ma anche i giovani, sempre più spesso s’incontrano in questi grandi luoghi che sono diventati spazi di raduno. Molto si è discusso su questo anche in passato, perché sono ritenuti “non luoghi”, termine introdotto dall’antropologo francese Marc Augé nel 1992 nel suo testo “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Quindi luoghi di incontro ma privi di senso e di significato».
Recuperare la domenica come giorno di riposo, «di gioia e di astensione dal lavoro». Dedicare il settimo giorno alla famiglia e alla spiritualità «ci fa vivere da figli e non da schiavi» ha specificato Bergoglio. Che cosa ne pensa dell’affermazione di Papa Francesco?
«Da cristiana ritengo che il Papa abbia messo in evidenza una esigenza tutta umana, che è quella di avere una giornata nella quale recuperare la dimensione più spirituale della vita fuori dalla quotidianità del lavoro, degli impegni e delle incombenze che tutti i giorni ci fanno rimanere a un livello più terreno. Quindi recuperare questa dimensione è sicuramente molto rilevante e il Pontefice ha messo in evidenza questa esigenza».
Gli italiani sono diventati schiavi di queste “repubbliche” del consumo, enormi cattedrali di questa nostra società sempre più materialista?
«Sì, schiavi, perché questi sono comportamenti adottati da molte persone, è un comportamento che sta dilagando nella nostra società e fa partecipare a questo rito domenicale sempre più gente. In questo senso, sì, c’è una sorta di schiavitù, anche se dobbiamo ricordare che il lavoro domenicale per alcuni è obbligatorio, altrimenti la nostra società non potrebbe funzionare. Pensiamo ai servizi della sicurezza e della sanità e tanti altri mestieri che sono necessari».
I centri commerciali hanno ridisegnato, in pochi anni, i costumi sociali, le condizioni di lavoro e la struttura architettonica delle nostre città. Hanno sostituito le piazze attraverso le quali si connetteva il tessuto sociale di un quartiere, disgregando le relazioni umane e la protezione sociale che una piazza favorisce. Qual è il Suo parere al riguardo?
«Una cosa è incontrarsi in una piazza, il che vuol dire incontrare le persone che vivono con noi nello stesso luogo e con le quali fissiamo delle relazioni significative. Un’altra cosa è andare in un luogo dove questo tessuto non esiste. È un incontro di tipo diverso, meno ricco di contenuti quello di incontrarsi negli spazi di questi “templi dello shopping” che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Questo avviene non solo nei centri commerciali ma anche nei supermercati abbastanza grandi come quello che sta vicino a casa mia. Vi sono alcune panchine sulle quali sono seduti alcuni anziani che stanno lì a passare il tempo, usando quello spazio per vivere la loro vita. Però senza relazioni. È una cosa molto triste, perché ciò vuol dire che questi anziani stanno lì da soli».
“Obbligarci a chiudere sarebbe una follia” ha dichiarato Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione, perché il mondo è cambiato e “Amazon e i siti di e-commerce sono aperti 24 ore su 24 e sette giorni su sette”. Ma in questo caso la clientela non è diversa?
«Lo è adesso ma lo sarà sempre di meno. Questo bisogna metterlo in conto, perché la virtualità è sempre più alla portata di tutti e man mano che le generazioni si susseguono, questo sarà sempre più evidente. Qui si apre tutto un altro fronte, è noto che ci sia una forma di lavoro precario e qualche volta anche sfruttato in questi luoghi del consumo virtuale. Non dimentichiamo che sì, il consumo è virtuale ma ci sono delle persone reali che lavorano dietro. Queste persone, è cronaca recente, non sempre sono trattate in maniera dignitosa».