Disegni dalla frontiera: le vittime dei naufragi hanno volti e storie, non sono numeri sulle lapidi

Lei si chiamava Welela, era detenuta in Libia con altre persone e poi, dopo l’esplosione di una bombola a gas, era stata messa in mare, senza ricevere cure per le sue ustioni, e lì ha trovato la morte. I suoi amici intonano una canzone ripetendo in continuazione il suo nome: quando i ragazzi della capitaneria di porto li trovano, rimangono molto colpiti da questa scena. La ragazza viene seppellita, insieme ad altri migranti, nel cimitero di Lampedusa, sulla tomba viene messo un semplice numero. Ma ciò ha talmente scosso i ragazzi della capitaneria che ne parlano al bar, dove una volontaria ascolta tutto e quel nome rimane impresso nella sua mente. In quei giorni si viene a sapere che un ragazzo eritreo sta cercando sua sorella, di nome Welela: sa che è morta durante un naufragio, ma non sa dove sia sepolto il corpo. Tutto torna: il numero sulla tomba lascia il posto a una sua foto e a una storia che prende volto e si allontana dall’oblio. Una storia che Francesco Piobbichi ha illustrato nel suo libro “Disegni dalla frontiera” (128 pagine, edizione Claudiana). Piobbichi lavora come operatore per il progetto “Mediterranean Hope” (MH) della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Il progetto intende contribuire ad affrontare il fenomeno dei flussi migratori via mare, in due modi: da una parte un’unità centrata sull’accoglienza e dall’altra un’unità centrata sull’informazione e l’azione politica di denuncia delle violazioni dei diritti umani dei migranti e della mancanza di norme in materia di diritto d’asilo. Il volume propone alcuni suoi disegni realizzati durante i suoi quattro anni di attività tra Lampedusa, Marocco e Libano, dove ha collaborato per la realizzazione di corridoi umanitari e contiene anche le traduzioni dei testi in inglese a cura di Duncan Hanson, immagini con relativi testi brevi che vanno dal Canto della sirena dell’Occidente, al Vento, ad Anna Frank in ogni barcone, alla Passione di Cristo a Tutto il peso dell’Ingiustizia sul corpo delle donne. “Il volume nasce dall’esigenza di costruire un racconto sulla frontiera diverso dal solito – racconta a Santalessandro -: spesso si parla alla pancia, tirando fuori le nostre pulsioni peggiori. A ciò ho contrapposto il racconto emozionale, che parte dalla dimensione dell’ingiustizia globale: perché chi non riesce a vivere con dignità nel proprio Paese non sempre può emigrare facilmente e cercare fortuna in altri Stati?”. Un concetto che è racchiuso in uno dei suoi disegni, dove si vede un ragazzo bloccato da un filo spinato: lui non può passare, ma il condotto che porta l’olio sì. Piobbichi parla di “pornografia del dolore”, delle storie e fotografie di migranti spesso utilizzate dal sistema mediatico ma che poi, una volta ottenuti i click, vengono facilmente dimenticate. “È difficile per chi lavora in questo campo – continua – spiegare e far capire alla gente ciò che facciamo. Questo progetto lo sto presentando in tutta Italia e sta andando ovunque: scuole, centri sociali, parrocchie. Solitamente presento il libro e vi è una mostra dei disegni, e poi un racconto disegnato, un modo per portare le persone dentro il disegno stesso. Il racconto è un pugno all’indifferenza, è qualcosa che lascia il segno. I disegni vengono poi venduti per sostenere “Medical Hope”, un nostro progetto che prevede interventi sanitari per i rifugiati siriani in Libano. Racconto storie di ingiustizia, vulnerabilità, ma anche di potenza”. E aggiunge: “Si emigra perché non c’è più il diritto al lavoro, per migliorare le proprie aspettative di vita. Perché i migranti italiani va bene se vanno all’estero per queste motivazioni ma gli altri no? Noi siamo tra i Paesi che hanno maggiore emigrazione, ma manca una discussione pubblica su ciò”. I disegni per lui fungono anche da costruzione della memoria: “Non potremo più dire che non sapevamo. Purtroppo ora ci troviamo in un meccanismo nel quale da quando gli sbarchi sono diminuiti, la questione non ci riguarda più, siamo indifferenti. Ma aver chiuso le frontiere significa morte. I disegni rappresentano riflessioni di questo tipo e racchiudono anche discussioni sui corridoi umanitari: questi ultimi sono un segnale positivo e dimostrano che è possibile evitare le tragedie in mare”