Bullismo: sulle vittime pesano stereotipi e pregiudizi. La violenza della “tribù” non è mai accettabile

“Mamma non ce la faccio ad alzarmi. Devo proprio?”. E’ normale che un adolescente faccia un po’ fatica a svegliarsi al mattino. Magari ha fatto tardi giocando ai videogames, oppure non ha studiato e vuole saltare l’interrogazione. Chi mai si immagina che possa essere un campanello d’allarme, e che quel ragazzo cerca di saltare la scuola perché soffre, perché viene tormentato dai bulli? Se ne parla così tanto, ci sono i nodi blu, gli incontri, i dibattiti, e un genitore si chiede: com’è possibile che succeda a mio figlio? Le denunce che arrivano in un anno all’Ufficio scolastico provinciale di Bergamo sono pochissime, cinque o sei al massimo. Secondo una ricerca condotta da Telefono Azzurro e Doxa Kids, però, il 21% degli adolescenti dichiara di essere stato bullizzato: se riportassimo questo dato sulla popolazione complessiva dei ragazzi tra 12 e 18 anni della nostra provincia, le vittime sarebbero molte di più, intorno alle 16.500, come rivela un’analisi pubblicata di recente su “L’Eco di Bergamo”. Come mai spesso le vittime tacciono? Un’ipotesi: temono le ritorsioni. Temono – e i loro genitori con loro – che parlarne peggiori la situazione, anziché migliorarla. Anche con i ragazzini bullizzati, infatti, si scatena facilmente lo stesso meccanismo governato da stereotipi e pregiudizi che si mette in moto, purtroppo, nei casi più gravi di violenze e abusi su soggetti fragili come donne e bambini. La reazione è scontata: “Ma se i compagni se la prendono con lui, qualcosa avrà fatto, no? Se non lo accettano avrà qualche comportamento sbagliato”. Certo che l’autocritica serve, anche quella aiuta a crescere. Non c’è nulla, però, a nostro parere, che giustifichi la persecuzione sistematica, i meccanismi di emarginazione, le molestie fisiche e psicologiche, lo stillicidio di insulti e battute crudeli, soprattutto se condotte da un gruppo contro un singolo. Insegnanti, genitori, dirigenti, educatori dovrebbero tenerlo bene a mente: questo circolo vizioso si può smontare solo se c’è una piena, profonda consapevolezza che non esiste una “reazione legittima” che possa attuarsi con queste modalità. Dovrebbero tutti tenere a mente che escludere un compagno, segnarlo a dito, bersagliarlo con scherzi feroci e minacce non è mai lecito, nemmeno se è “antipatico”, “secchione”, “saputello”, “dispettoso”. La logica delle “bande”, delle “tribù di bastonatori” che si sentono autorizzati a sostenere le proprie convinzioni con la violenza, l’insulto e la distruzione psicologica dei “nemici” viene attuata purtroppo oggi anche dagli adulti, nel nuovo medioevo della rete. Di certo non è un buon esempio. Viene quindi spontaneo chiedersi se non sia il caso di puntare di più – anche all’interno delle comunità cristiane – su un’”educazione di comunità”, attenta alla gestione delle emozioni e delle dinamiche relazionali, riservandole dignità e spazio nella vita scolastica, cercando di prevenire le situazioni di rischio. Forse però una formazione di questo tipo servirebbe anche ai genitori. Altrimenti tutti i “nodi blu” del mondo resteranno solo degli spot, dei bei discorsi vuoti, che non servono a niente.